Zibba, Singer & Songwriter: il punto di vista migliore.

«Ti sembrerà la cosa più strana del mondo, ho bisogno di questo ogni tanto: di un materasso per terra perché l’insonnia infernale mi venga ad aiutare».

Sono queste le parole che mi risuonano nelle orecchie, mentre torno da Milano dopo aver incontrato Zibba, al secolo Sergio Vallarino. Parole contenute nel pezzo “La medicina e il dolore”, incluso nel suo ultimo album “Muoviti Svelto”. Parole che parlano di lui più di tanti altri discorsi, supportate da una voce che lascia il segno. Me ne sono reso conto dopo averlo ascoltato parlare, suonare e cantare la sera del nostro incontro, in occasione del concerto dei Double Trouble al circolo Arci Ohibo’.
Savonese d’origine, vincitore della Targa Bindi nel 2011, del Premio Tenco nel 2012 e del Premio della Critica al Festival di Sanremo nel 2014, Zibba è oggi non solo cantautore e talent scout, ma anche autore per l’etichetta Warner: ha prodotto testi per Eugenio Finardi, Cristiano De Andrè, Patty Pravo, Emma Marrone, Max Pezzali e ha collaborato con mostri sacri della musica come Jack Savoretti, Tiziano Ferro, Alex Britti, Federico Zampaglione, Jovanotti e molti altri.

Grazie Zibba, per avere accolto il nostro invito a raccontarti. Prima di incontrarti ho fatto un po’ di scouting tra le interviste che hai rilasciato in questi ultimi anni. Una tua frase che mi ha colpito riguardava “l’aver vissuto in una famiglia piena di dischi”. Puoi spiegarmi come si è formato il tuo background musicale e che ruolo hanno avuto i tuoi genitori in questa formazione?  

«Credo che la mia famiglia avesse in casa tanti dischi e tanti libri per una sorta di tutela dalla noia, senza una reale necessità di dover leggere o ascoltare musica in ogni occasione. Personalmente non sono mai stato un grande lettore, se non nei momenti in cui volevo sentirmi tale, però il fatto di avere sempre a disposizione tanti libri e tanti dischi, che ti possono potenzialmente salvare la vita anche solo per un pomeriggio, credo sia estremamente positivo. Ricordo questa enorme libreria piena di vinili, comprati negli anni da mio padre. Ho conosciuto tanta musica grazie alla sua passione.

Ho iniziato a suonare da quattordicenne, in un’epoca in cui il compact disc andava per la maggiore e aveva già soppiantato il buon vecchio 33 giri. Suonavo in un gruppo blues della mia zona ed essendo troppo giovane per essere pagato in denaro venivo retribuito con vecchi Lp. Avere questo archivio ancora oggi è per me un bene prezioso».

Sempre rileggendo le tue dichiarazioni precedenti non ho potuto fare a meno di notare il riferimento ad un disco di Tom Waits, in particolare, che ti ha “svoltato la vita”.

«Di opere di Tom Waits dovrei citarne diverse, ma credo che il primo album Heart Attack and Vine del 1980 sia stato il primo a farmi scoprire non solo l’esistenza di questo artista, ma anche di un determinato stile musicale. È stato il primo che mi ha fatto scoprire l’esistenza di Tom Waits e quel determinato tipo di musica. Ero ancora adolescente e in piena fase di apprendimento, di voglia di capire il mondo della musica e quel disco, il primo che mi è stato regalato, è stato illuminante».

«Il mio “me stesso” lo ritrovo nel furgone che uso durante i nostri tour, quando vado in giro a far qualcosa di figo con qualche altro artista. Potrebbe sembrare strano, ma non è il palco il contesto dove riesco a sentirmi più a mio agio. La mia giusta dimensione è quella di uno studio di registrazione: uno spazio dove stare comodo e avere il tempo per scrivere, di comporre. È il momento che preferisco in assoluto».

Tu sei ligure di origine e residenza. Quanto ha influito nascere e vivere in un paese come Varazze per la tua formazione musicale e quando hai compreso che era giunto il momento di migrare verso una realtà più consona ai tuoi desideri di fare musica?

«La presenza del mare per me è fondamentale. Credo che vivere sulla costa sia, da un punto di vista creativo, il massimo per la mia ispirazione. Tante persone hanno difficoltà nel trovare stimoli nelle grandi città.

È probabile che un rapper, per le tematiche che affronta nei propri testi, si trovi maggiormente a suo agio nel contesto di una metropoli. La mia casa, invece, è immersa in un bosco e ogni volta che ci torno mi trovo benissimo, mi sento in pace con me stesso e riesco a vedere tante cose da un punto di vista più obiettivo; riesco a scrivere di tutto perché sono ispirato dalla natura. Risiedere in Liguria non è stato male, ma ad un certo punto della mia carriera ho dovuto necessariamente spostarmi. Milano è ormai una seconda casa nella quale mi trovo benissimo, ma Varazze rappresenta una sorta di rifugio dove ritrovo il mio “io”, che è diverso dal “me stesso” che si trova sul palco. È il momento in cui torno ad assumere la mia dimensione familiare.

Il mio “me stesso” lo ritrovo nel furgone che uso durante i nostri tour, quando vado in giro a far qualcosa di figo con qualche altro artista. Potrebbe sembrare strano, ma non è il palco il contesto dove riesco a sentirmi più a mio agio. La mia giusta dimensione è quella di uno studio di registrazione: uno spazio dove stare comodo e avere il tempo per scrivere, di comporre. È il momento che preferisco in assoluto».

Leggendo la tua biografia piena di brani realizzati per tantissimi nomi di punta del panorama musicale nostrano, sembra che tu viva di collaborazioni e non solo dei tuoi progetti personali. Nel ruolo di autore di testi per altri come vedi la tua canzone? La reputi una sorta di abito sartoriale realizzato a misura dell’interprete o ti capita di notare un avvicinamento del cantante al tuo stile?

«Entrambe le cose: nel realizzare un brano per qualcuno cerco di vestirlo secondo il suo stile, ma non devo dimenticarmi che il cantante ha chiamato me per quella canzone quindi implicitamente vuole che ci sia la mia impronta. Non so se esista uno stile musicale alla Zibba. Credo solo di avere un certo modo di dire le cose e di affrontare gli argomenti, forse anche di raccontare una particolare filosofia di vita. Probabilmente è questo mix che piace a chi mi chiede di realizzare un pezzo per sé».

«Non so se esista uno stile musicale alla Zibba. Credo solo di avere un certo modo di dire le cose e di affrontare gli argomenti, forse anche di raccontare una particolare filosofia di vita. Probabilmente è questo mix che piace a chi mi chiede di realizzare un pezzo per sé».

«Riguardo alle collaborazioni, le ritengo fondamentali. Se chiedo a Federico Zampaglione di cantare con me lo faccio perché credo che la sua voce dia qualcosa di unico al pezzo che ho realizzato. La prima cosa che mi viene in mente quando scrivo un brano è chiedermi chi potrebbe cantarlo. È un ragionamento fatto a più teste, in studio, insieme ai musicisti e ai collaboratori.

Questa filosofia la applico anche a tutto il resto della mia attività. Sono uno che coinvolge sempre le persone quando fa una cosa e la fortuna di saper scegliere di chi circondarti, in alcune situazioni, ti può salvare. Anche, banalmente, quando ti serve chiudere un testo il prima possibile: se so che un mio amico autore è in grado di darmi una mano non esito a chiamarlo, anche se parte dei diritti sul pezzo andranno a lui. Nessuno di noi è un’isola e non è semplice trovare collaboratori di valore, ma la persona giusta la vedi guardandola negli occhi. Perché dagli occhi si può capire il profondo del suo essere. Prendiamo, ad esempio, il duetto tra Lucio Dalla e Francesco De Gregori nell’album live Banana Republic: più ascoltavo quel disco e più venivo catturato dalla bellezza di quella interpretazione a due voci. Ho sempre pensato che da grande avrei fatto anch’io una cosa così».

Da quanto ho letto e da quello che emerge dalle tue parole credo che tu abbia una forte etica del lavoro, una consapevolezza della necessità di impegnarsi per portare avanti i propri progetti. Nei tuoi ruoli di autore, compositore, cantautore e produttore riesci a trasmettere questo tuo atteggiamento a chi stai seguendo nel suo percorso musicale?

«Ti leggo una frase inviatami oggi da una delle cantanti per le quali sto producendo il disco: “A volte pensi di dover rinunciare ai sogni e ricominciare da capo. Forse invece si ha solo bisogno di qualcuno che ti prenda per mano e ti aiuti a guardare le cose in un modo diverso».

È questo quello che cerco di fare con le persone che seguo e produco: dar loro un punto di vista migliore. Se non ti esce una buona canzone è perché forse non la sai scrivere o forse non è il pezzo giusto. Se rimani bloccato per settimane su di un accordo bisogna lasciar perdere, vuol dire che va bene così e che non c’è alchimia. A volte è facile credere di aver scritto un gran pezzo, perché è un pezzo che parla di te, perché ti emoziona, ma questo non vuol dire che sia una canzone in grado di emozionare il pubblico. Se una canzone è bella stai tranquillo che se ne accorgeranno in tanti. Se non lo è, anche chi l’ha scritta ne è consapevole, ma non lo vuole ammettere».

«Con le persone che seguo e produco uno dei miei compiti è quello di cercare dar loro un punto di vista migliore. Se non ti esce una buona canzone è perché forse non la sai scrivere o forse non è il pezzo giusto. Se rimani bloccato per settimane su di un accordo bisogna lasciar perdere, vuol dire che va bene così e che non c’è alchimia. A volte è facile credere di aver scritto un gran pezzo, perché è un pezzo che parla di te, perché ti emoziona, ma questo non vuol dire che sia una canzone in grado di emozionare il pubblico».

Parlando del tuo ultimo album “Muoviti Svelto” hai raccontato di brani concepiti in camere d’albergo, in viaggio sul furgone tra un concerto e l’altro o prima di salire su un palco. Sei in grado di cristallizzare il momento in cui hai realizzato il testo della canzone che più ti sta a cuore?

«”La medicina e il dolore”: è il primo brano che ho scritto per l’album quando ancora non sapevo che sarebbe diventato tale. Mi è uscito così, come un flusso ininterrotto di note e parole alle cinque di un mattino in cui, solo un’ora prima, avevo ricevuto una mail da parte di Jovanotti che mi chiedeva di collaborare alla realizzazione di un pezzo.

Uscivo da un periodo decisamente pesante e denso di avvenimenti. In pochi mesi ero passato dal vincere il premio della Critica a Sanremo alla nascita di mio figlio, passando per una canzone realizzata a due mani con Tiziano Ferro interpretata dal vincitore di X Factor 2014. È stata una fase della mia vita decisamente intensa, al punto tale da riuscire a vedere mio figlio ogni volta solo per pochi giorni consecutivi negli ultimi tre anni. All’alba di quel giorno mi trovavo in studio, ho preso la chitarra, ho buttato giù qualche accordo e iniziato a cantare. Il brano che ne è scaturito è quello che rappresenta di più l’album. Si è trattato di un momento di vera e propria catarsi, come se mi si fosse aperta una piccola finestra nel delirio dell’immediato passato e potessi soffermarmi a vedere tutto quello che mi era capitato in quegli ultimi tempi».

Nel corso della tua carriera ti sei esibito nei contesti più disparati: palazzetti, club, stadi, persino l’Arena di Verona . Qual è la dimensione live in cui ti trovi più a tuo agio?

«Da solo, in teatro con la chitarra acustica: un teatro pieno, senza altri effetti sonori. È questo il contesto che preferisco».

Abbiamo assistito all’emergere e all’imporsi dei talent show e ad un costante calo dell’offerta di musica live in quegli spazi che, in passato, erano culla e vetrina per nuove band e nuovi musicisti. Ritieni che questo cambio di paradigma sia irreversibile? Non pensi che la formula stessa del talent show porti il pubblico a concentrarsi solo sullo show e sui suoi protagonisti nell’immediato senza sviluppare poi un’abitudine ad approfondire successivamente i lavori e i progetti di chi dei talent ne ha fatto parte? Fatte le dovute eccezioni, capita sovente al pubblico di non ricordare non solo i partecipanti, ma anche i vincitori delle edizioni passate di programmi come X Factor e altri simili.

«Credo che oggi il mercato dell’offerta musicale sia radicalmente cambiato anche rispetto solo a qualche anno fa. Sono convinto di una cosa: se non ci si ricorda di un artista c’è sempre un motivo. Certo, esiste e deve esistere un gusto musicale personale per un certo stile musicale – come esiste nell’arte in generale – ma non si può negare che un capolavoro non sia tale solo perché non è in linea con le proprie preferenze. La musica la ritrovi in Vivaldi, in Bob Marley, nei Queen, in Lucio Battisti, nei pezzi di Mina, di Renato Carosone, di Modugno e tanti altri. Possono non piacere a tutti, ma non si può non riconoscere universalmente il loro talento e ciò che loro hanno dato a questo mondo.

«Sono convinto di una cosa: se non ci si ricorda di un artista c’è sempre un motivo».

Allo stesso tempo cantanti e gruppi italiani come ad esempio i Tiromancino, Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e i Negramaro, solo per citarne alcuni, hanno fatto dei pezzi bellissimi. Questo lungo preambolo per dire che non tutto ciò che viene proposto deve diventare automaticamente la musica del cuore. Allo stesso modo bisogna essere consapevoli che, ad oggi, la musica dal vivo non rappresenta più l’attività principale per un cantante o una band. Gli show live sono stati una peculiarità degli anni ’80 e ’90, noi trentenni eravamo la generazione che andava ad ascoltare musica nei locali e abbiamo smesso di andarci. Il presente della musica non è dal vivo. Il mondo va avanti e bisogna lasciarlo correre perché i tempi sono mutati, il digitale si è imposto come standard e proprio nel digitale bisogna riporre le aspettative in termini di ricerca di notorietà, di audience e di investimenti.

«Il presente della musica non è dal vivo. Il mondo va avanti e bisogna lasciarlo correre perché i tempi sono mutati, il digitale si è imposto come standard e proprio nel digitale bisogna riporre le aspettative in termini di ricerca di notorietà, di audience e di investimenti».

Non disdegno i talent show perché ogni tanto sfornano cose interessanti e meritevoli di attenzione: mi dispiace solo che possa essere anche una fucina di delusioni per i tanti che vi partecipano, che sperano e poi non sono in grado di fare il salto necessario.

Ma magari non lo avrebbero fatto lo stesso. Approdare in televisione non equivale a diventare automaticamente un cantante di valore, ma sono fermamente convinto che se si è bravo, prima o poi il talento arriverà al pubblico».

Articolo: Mauro Farina  Shooting fotografico: Simone Toson 

 

 

 

Mauro Farina

Founder - Creative Content Manager

Altoatesino di nascita, bolognese nel cuore e veronese d’adozione, vive in simbiosi con la sindrome del bambino di fronte alla vetrina del negozio di giocattoli. Vorrebbe comprare tutto, ma non potendoselo permettere sublima raccontando ciò che divora con gli occhi.