Carlo Massimino: sono un libraio punk che ha sfiorato la Palma d’oro

Carlo Massimino attore

Carlo Massimino fa il libraio al Giambellino, lotta per le case popolari e con “Lazzaro felice” è finito in smoking sul tappeto rosso di Cannes. Questa è la sua storia.

 

 

Carlo Massimino ha la faccia di qualunque persona abbiate già incontrato, però un po’ più cattiva, un po’ più scoglionata, un po’ più, ecco sì, stronza. 

A un certo punto, chiacchierando, glielo dico. Gli dico: «Carlo, lo sai che sembri uno stronzo?».

Lui non nega e non conferma: è una di quelle persone su cui pare non battere mai il sole, dove il ghiaccio resta ghiaccio a lungo. Ti guarda negli occhi per pochissimi istanti, poi devia. Gli orecchini, l’incarnato pallido. Una quantità di piccoli tic facciali. Sembra la persona più a disagio d’Europa, forse lo è.

«Sono uno nervoso. Qui in libreria abbiamo una clientela privilegiata, borghese, colta, il che è un bene; d’altra parte, però, qualcuno ha dimenticato la cultura del lavoro». E qui si ferma un attimo. Si guarda intorno come se “questo qualcuno” lo stesse spiando. Mi rivela un passato da intenso fumatore che traspare, le dita continuamente frugano, si muovono, alla ricerca di qualcosa nelle tasche che non c’è.

Poi continua: «Ti avviso che adesso esce “il sindacato” che è in me, chiedo scusa, però quando vedo uno che per pagare ti lancia i soldi sul bancone senza manco una parola, io mi incazzo. Sarà un mio limite…»

Tutto questo perché Carlo Massimino in primis è un libraio. Un libraio del Giambellino, libreria Gogol & Company, in una piazza che è un presidio culturale, Piazza Berlinguer, giù di lì a metà di Via Savona, un intermezzo di borghesia assoluta poco prima del degrado urbano, terrazzi coi gerani tenuti curatissimi da filippine multitasking e poi, quattrocento metri dopo, gli alveari delle case popolari coi balconcini due metri per due con le antenne paraboliche. Park Avenue che diventa Lorenteggio con un tocco di architettura para-leninista, brutta così obiettivamente brutta che ti fa sentire snob o razzista per il solo fatto di percepirne la bruttezza.

 

È una zona che non perdona, se sbagli anche solo di pochissimo a piazzare il tuo carrarmatino: una volta, ingenuamente, feci una telefonata a un’agenzia immobiliare che aveva in gestione un appartamento in loco. Mi rispose un tizio fin troppo gentile, da subito reverente, quasi sottomesso: l’atteggiamento di uno che da ventisei mesi cercava di vendere qualcosa senza riuscirci e sarebbe stato pronto letteralmente a regalarla, pur di andare avanti con la propria vita. Be’, ovviamente mi sparò una cifra che superava il milione di euro e il diastema di silenzio che ne seguì conteneva tutto ciò che dovevamo ancora dirci, saluti compresi.

«Il calcio professionistico non ci rappresentava, troppa ricchezza, troppa distanza».  Carlo Massimino

Me lo immagino ancora lì, con una mano sul telefono e le dita dell’altra a tamburellare su una scrivania di ebano nero.

«Non ho sempre vissuto qui. Ho fatto il Classico e i licei Classici a Milano sono tutti in “Zona Uno”, il che significa andare a scuola in Centro. Per tutte le superiori ho bazzicato le Colonne di San Lorenzo, il Rattazzo(*), Porta Ticinese, poi con i primi anni di università ho cominciato a fare lotta politica qui al Giambellino, soprattutto per il diritto alla casa; con alcuni amici abbiamo fondato una squadra di calcio di quartiere, l’Ardita Giambellino, e questa è diventata casa mia. Ci abitano i miei genitori, c’è il mio lavoro».

Si muove, è febbrile.

Mentre lo guardo cerco di ricordarmi chi ero io alla sua età, a venticinque anni. Poco e niente, come tutti. Idee confuse ma autentiche, poche sovrastrutture, una generica voglia di farcela, la vitalità tipica degli organismi instabili.

L’Ardita Giambellino?

Ha detto proprio così?

«Il calcio professionistico non ci rappresentava, troppa ricchezza, troppa distanza; perciò abbiamo messo su con altri amici questa squadra squinternata, di cui oggi sono vicepresidente. I primi tornei li facevamo con le comunità migranti, al Leoncavallo o in parrocchia, però poi il progetto è cresciuto e oggi L’Ardita è un’associazione dilettantistica vera e propria, riconosciuta, con tanto di statuto e organico. Il campo è a Piazza Tirana, abbiamo aggregato gente di ogni quartiere, fino a Monza».

 

 

Ho davanti a me questo viso straordinario, una specie di Dustin Hoffman giovane, con una spruzzata cromosomica di Liam Gallagher, più un personaggio “X” di Trainspotting a cui è andato storto tutto. Mi piace come parla. Quando comincia è deciso, compulsivo, precisissimo; ma prima di ingranare impiega tanto, ritorna sui suoi passi, si ferma, ci ripensa, riparte col ragionamento, appuntendolo, affinandolo, fino a proiettare fuori di sé una bolla di senso acuminata, perfettamente rotolante. Tuttavia non si esalta mai: qualsiasi cosa mi racconti sembra mantenere una certa distanza, come se stesse in effetti parlando di qualcun altro.

Gli chiedo qualcosa a proposito del suo look, studiatamente trasandato, gli orecchini.

«Per anni ho suonato in gruppo hard-core punk. Un caro amico di papà mi regalò un disco dei Cure e uno dei Sex Pistols. Così cominciò tutto e io mi innamorai del mondo punk, anche se la mia era la fascinazione che poteva avere un appassionato di comunità Cherokee o Apache che però vive a Trezzano, non so se mi spiego. Cioè mi lasciavo, diciamo, influenzare a distanza, da Wikipedia, dai libri, dalla leggenda del punk a Milano negli anni Novanta, ma erano tutte cose che non avevo vissuto. Il mio era uno spirito voyeuristico. Non me ne pento, ma oggi mi è passata: oggi il punk da controcultura è diventata una sottocultura e nel 2019 il tipo con la crestina gialla non ha più niente di originale: è solo estetica. Tutto il resto se l’è mangiato la moda, il design».

Ora, come sia possibile che questo ragazzo, fatto così, che dice cose così, sia finito un anno fa, dentro a uno smoking preso in affitto, sul tappeto rosso del Festival del Cinema di Cannes, come attore non protagonista in un film che poi avrebbe vinto per la migliore sceneggiatura, coprodotto negli Stati Uniti da Martin Scorsese, è obiettivamente uno di quei “tilt” della realtà per cui tanto è amabile vivere.

 

«Ero così ingenuo che chiesi al sarto se quello smoking avrei potuto comprarlo, così, per ricordo. Certo, mi rispose, fanno tremila euro. L’ho lasciato lì. Tieni conto che a Cannes ci andai a spese mie: mia nonna vive a Sanremo che non è lontanissimo. Così mi appoggiai da lei, almeno per infilarmi il vestito, poi da lì a Cannes in auto coi miei, ché io non ho nemmeno la patente. La produzione non poteva coprire anche le mie spese, perciò ho fatto una tirata di ventiquattrore. Sfilata, proiezione del film, festa e poi a casa. Esperienza non bellissima: mi aspettavo un evento culturale, in realtà mi sono trovato davanti a un grande show mondano, con le Lamborghini e le Ferrari parcheggiate dappertutto, i papponi con le mignotte e gente a caccia di VIP: mi ha dato l’idea di una cosa sudicia. Non è il mio mondo».

Il film in questione è “Lazzaro felice“, premiato capolavoro di Alice Rohrwacher, con, tra gli altri, Adriano Tardiolo e Alba Rohrwacher, oltre al nostro Carlo Massimino. Tre candidature ai Nastri d’Argento, nove candidature ai David di Donatello, quattro candidature agli European Film Awards e una candidatura agli Spirit Awards, oltre al già citato Premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes.

«Il primo ciak è stato di lunedì. Me lo ricordo benissimo. Il giorno prima l’avevo passato a vomitare». Carlo Massimino

«Non ho mai fatto un minuto di recitazione in vita mia. Ero e sono completamente fuori dal cinema. È successo che un giorno, dal nulla, mi telefona la mamma di una mia amica. Mi dice che sono identico a un bambino usato nella prima parte di un film in lavorazione. Il casting director sta cercando la “versione adulta” di questo bambino e per caso lei è in contatto con la produzione: mi chiede perciò se può mandare una mia foto, gli dico di sì, va a finire che mi chiamano per un provino, poi per un altro e poi per un terzo. Dal nulla — avevo appena iniziato a lavorare qui come libraio — mi ritrovo a Roma con un acting coach a casa della regista. Parliamo tutto il pomeriggio, andiamo a pranzo: a sera ero stato preso per il film».

Ma cosa deve fare uno che non ha mai recitato in vita sua per recitare? Sono curioso, vorrei sapere tutto.

«Mi hanno fatto buttare per terra, mi hanno fatto ridere. Mi hanno intervistato come se fossi davvero il personaggio che avrei interpretato. Hanno corretto tutto di me, soprattutto il modo di muovermi, di occupare lo spazio. Non tenevo le braccia in modo corretto, ero rigido, non sapevo cosa fare delle mani. Ho imparato a essere sciolto».

Lo guardo famelico. Sono uno che vive d’ansia. A stento tollero l’idea di cambiare montatura degli occhiali, figuriamoci se mi dovessi ritrovare in mezzo a cento persone per fare qualcosa che non ho mai fatto in vita mia.

«Il primo ciak è stato di lunedì. Me lo ricordo benissimo. Il giorno prima l’avevo passato a vomitare. Ero arrivato sul set in uno stato devastante, tesissimo, però è andata bene. Era una scena facile, seduto in auto. Girammo alle sei del mattino, d’inverno. Due ore seduto in macchina senza praticamente mai parlare. Il pomeriggio, invece, girai la prima scena, una scena madre importantissima per il mio personaggio, che poi però hanno eliminato dal montaggio finale».

Adoro i brevissimi ma illuminanti lampi fantozziani che pervadono il racconto della vita di questo gregario di successo del Giambellino.

Continua: «Avevo un quadratino di spazio in cui muovermi: all’inizio è stato difficilissimo capire l’uso dello spazio. Avevo una camera fissa davanti, un altro personaggio e la regista. Mi dovevo muovere in un ambiente circoscritto di un metro, ma nella scena il personaggio era libero  (e qui Carlo si alza e comincia a spostarsi nel dehor della libreria, imitando se stesso nell’atto di recitare. Si muove in circolo, allarga le braccia, la gente lo osserva, lui non sembra accorgersene – ndr). Corpo e spazio sono stati i veri insegnamenti che ho appreso».

“Lazzaro felice” è stato un successo anche negli stati Uniti, Martin Scorsese a parte, il film è stato acquistato da Netflix e di recente è stato oggetto di un lungo articolo di un accademico americano intitolato “Dieci tesi su Lazzaro Felice come forma di vita” (**), cosa di cui Carlo mi fa appena un accenno, come se avesse notato una mosca sul bordo del mio bicchiere.

«Ho fatto un film, capirai: pensano che io sia Di Caprio». Carlo Massimino

«Credo che in America sia tanto piaciuto perché offre una forma estetizzata dell’Italia. Sai quella cultura di cui parlava Pasolini, quando faceva riferimento alla società dei consumi che si mangia la tradizione… ecco, è chiaro che per un americano il film costituisca soprattutto un’attrattiva culturale in tal senso».

Mi affascina questo meccanismo dialettico e comportamentale per cui Carlo tira verso il basso tutto ciò che dice: anche le situazioni più esaltanti per lui rimangono normale amministrazione, istanze da scomporre e analizzare per quello che sono, casualità, piccoli colpi di fortuna o sviste.

“Lazzaro felice” parla di un giovane contadino toscano, Lazzaro, appunto, un sempliciotto legato da un’amicizia profonda con Tancredi, figlio della marchesa Alfonsina De Luna, detta “la regina delle sigarette”. Il rapporto tra i due diventerà fraterno, simbiotico quando condivideranno una grande avventura che spingerà Lazzaro a sconfinare, per la prima volta, fino alla grande città, abbandonando la campagna.

Naturalmente Carlo non interpreta né l’uno né l’altro, ma un terzo personaggio, una specie di “Caronte” che interverrà a riportare il protagonista sulla “giusta strada”.

Non dimentichiamoci che questa è una storia di gregari.

«Non mi sono arricchito, la mia paga era di qualche centinaio di euro al giorno, comunque un grande stipendio per uno come me. Il problema è che qui nel quartiere per tutti io sono “quello che ce l’ha fatta”. Ho fatto un film, capirai: pensano che io sia Di Caprio. Subito dopo le riprese mi chiedevano di pagare per tutti, di organizzare feste (ride – ndr). Ho un sacco di amici abbastanza borderline, che vivono di espedienti, insomma da allora mi guardano con occhi diversi, ma la verità è che se domani qui mi cacciano (si gira a guardare l’ingresso della libreria – ndr) io finisco a braghe all’aria come tutti loro».

Mi sembra il momento giusto per lanciare sul fuocherello un nuovo tizzone. C’è qualcosa che preme sotto la pelle di questo ragazzo che ogni tanto vorrebbe uscire. Cerco di arrivarci, gratto via un po’ di polverina argentata con le unghie e lo stimolo fino a trovare un buco.

 

«No, non mi sono mai interessato alla politica per così dire istituzionale. Leggi, decreti, Parlamento, ne so poco: però sono sempre stato vicino alla politica “dal basso”, quella fatta di persone che si organizzano tra di loro. Occupare certi spazi, il centrare tutto sulla relazione: questa per me è la politica. Un luogo dove viene meno il denaro, il ceto e dove quello che importa è il legame, costruire progetti insieme. Viviamo un periodo triste e grigio, sono completamente sparite le politiche sociali, ma quello che manca davvero, secondo me, è l’esigenza di organizzarsi. Quando è scoppiata la crisi avevo quattordici anni, è una vita che sento parlare di precariato, di assenza di posti di lavoro. Oggi ci ritroviamo con un governo molto di destra ed è faticoso avere una prospettiva serena: mi viene una rabbia… C’è bisogno di scontrarsi in piazza, io la sento questa esigenza. Mi ricordo che nel 2011 presi parte al corteo degli “Indignati”, ecco lì capii che a me il concetto di indignazione non piace. A che serve l’indignazione? Non ci porta niente: è un fatto privato, leggi al computer in camera tua e ti indigni. C’è bisogno piuttosto di un recupero della rabbia. La rabbia in senso genuino. Come diceva Benjamin: “Il carattere distruttivo è giovane e sereno”. Ecco in tal senso c’è bisogno di rabbia».

Ma il cinema, in tutto questo, che fine fa, che posto nella sua vita occuperà?

«Non lo so, non credo sia il mio focus. Non è questa la roba che sento nella mia vita. Mi è andata bene, ma non mi giocherei i miei studi, il mio lavoro, quello che ho costruito, per il cinema. Poi, ovvio, se domani mi chiama Garrone per un ruolo da protagonista ci vado».

L’intervista è finita, la pioggia no.

Sto cercando sull’applicazione del telefono una macchina col servizio di car sharing quando sento Carlo chiamarmi. È seduto sulla panchina appresso all’ingresso della libreria e ha l’aria di uno che ha appena fatto un pensiero lungo e importante, che si sta ancora rimasticando in bocca.

«Ma davvero do l’idea di essere uno stronzo?», mi chiede.

 


Articolo: Stefano Sgambati    Shooting fotografico: Alessandra Lanza

Stefano Sgambati

Contributor - Writer

Scrittore, editorialista e autore televisivo.