Mattia Zoppellaro, fotografo: da outcast ad outsider

Appleby Horse Fair 2012 - Mattia Zoppellaro fotografo

Nato a Rovigo qualche decina d’anni fa, Mattia Zoppellaro da ragazzino si è sempre sentito un outcast: avrebbe voluto fare tutt’altro nella vita, ma ha sempre scoperto che non era davvero la sua strada. Finché è arrivata la fotografia.

Mattia Zoppellaro ha avuto tre grandi amori nella vita. Tutti sono iniziati piuttosto presto, nessuno si è affievolito con il tempo, nonostante il fisiologico momento della disillusione. È come se con ciascuno avesse raggiunto una sorta di fase etica kierkegaardiana. Solo uno di questi amori, per esclusione o perché nella vita non tutti riconoscono al primo colpo la propria vocazione – sono io a scegliere questo termine, visto che Zoppellaro preferisce dire che la fotografia gli “piace tantissimo” e lo rende “molto, molto felice” –, è arrivato a fare di quest’uomo nato e cresciuto a Rovigo un professionista.

Il primo crush è stato quello con il calcio, di cui è ancora un fanatico – bianconero – ma che ha dolorosamente accettato di non saper giocare.  «Mi ricordo di ricordare, perché ero davvero molto piccolo, la finale del Mondiale per club in cui vincemmo 6 a 5 contro l’Argentinos: è il momento in cui mi sono completamente innamorato di questo sport e ho iniziato a sognare di fare gol anche io, di segnarlo nella Juventus. Quando mi sono reso conto che non avevo le capacità per tenere la palla tra i piedi, e neanche per fare il portiere, ho dovuto cambiare idea. Sono una persona competitiva e se non so fare una cosa bene preferisco non farla». Dopo il calcio il sogno è diventato fare il giornalista sportivo, poi il designer, l’architetto, il regista cinematografico. «Io amo il cinema: trovo che sia la più alta forma di espressione nella società contemporanea, ed essendo ambizioso mi sarebbe piaciuto fare per lavoro proprio quella che ritengo la più alta forma di espressione nella società in cui vivo». Trasferitosi a Milano a 19 anni per frequentare la Civica Scuola di Cinema, venne preso insieme ad altri due ragazzi molto più grandi tra centinaia di aspiranti che avevano fatto domanda. «Dopo poco mi sono reso conto di non essere un film maker: forse ero ancora troppo giovane, avevo visto meno film, letto meno libri, e in generale le mie capacità organizzative e di pianificazione non sono molto sviluppate, così ho ripiegato su qualcosa di più istintivo». Ed è arrivata la fotografia. «Credo sia stata la mia ottava scelta. Ma mi diverte molto fare foto, molto più che guardarle».

Mattia Zoppellaro è oggi, dopo una lunga carriera, un professionista che lavora e ha lavorato con le migliori riviste italiane e straniere, da Mojo a Rolling Stones, da Geo a Vanity Fair, e che per loro ha fotografato i personaggi, soprattutto del mondo musicale, più iconici che possano venirvi in mente, da Patti Smith a Lou Reed, da Wes Anderson a James Franco, da Giulio Andreotti a Rocco Siffredi. Prestato a Londra per diversi anni, anche se non l’ha mai amata troppo, Zoppellaro vive ora a Milano: la sua casa, in zona Sud, ha un’intera parete, decisamente lunga, dedicata agli oggetti che ha nel tempo “collezionato”. Mentre si racconta siamo circondati da vinili, dvd, cd, e soprattutto libri di fotografia: «In questo sono un po’ maniaco, sono la cosa per cui spendo più soldi, e di film quando ho tempo ne guardo anche quattro al giorno». Sopra al suo divano è appesa una grande fotografia in bianco e nero, fa parte del suo primo long term project, dedicato ai rave party, seguito negli anni successivi da altri reportage sui movimenti giovanili, di costume o su fenomeni sociali come quello degli Irish Travellers.

Quando hai scattato la tua prima foto? 

«Probabilmente in gita alle elementari con la scuola. Mia madre mi aveva regalato una macchina di plastica, con uno di quei rullini piccoli, o forse era in un numero di Topolino, che al tempo collezionavo. È il mio primo ricordo di me che scatto. Ho iniziato a farlo con più frequenza quando sono stato a Londra a 17 anni: era il mio primo viaggio da solo, e avevo portato con me la macchina che era appartenuta a mio padre, scattando in bianco e nero nel tempo libero. Poi mi ero fatto spiegare il processo di sviluppo da alcuni amici e avevo stampato io in camera oscura con il loro ingranditore. È stata la prima volta che ho fotografato in modo creativo».

Tu padre era fotografo?

«Faceva foto. È l’unica cosa di lui che mi è rimasta, nonostante poi si sia opposto fortemente alla mia scelta di fare il fotografo. Negli anni Ottanta era un hobby molto diffuso, ma era comunque strano, perché mio padre ha sempre vissuto per il suo lavoro e non ha mai avuto passioni per musica, cinema o letteratura. Io e lui non ci siamo mai dedicati tempo o frequentati, non avendo niente in comune, quindi mi colpì ritrovare le foto in bianco e nero di me da piccolo, erano anche discrete, con una bella luce, lo sfondo fuori fuoco: ho sempre pensato che la mia presenza gli interessasse solo per il senso di colpa di avermi abbandonato». 

Perché pensi si sia opposto alla tua decisione di fare il fotografo?

«Non credo che lui non credesse in me, sono sempre stato una persona abbastanza intelligente. Per un motivo economico: la scuola che ho frequentato, lo IED, era privata. Mia madre chiese i soldi a mio zio per l’iscrizione».

Dopo gli studi come sei arrivato all’agenzia Fabrica (ndr. il centro culturale fondato da Luciano Benetton e Oliviero Toscani negli anni ’90 a Treviso)?

«Ho comprato la rivista COLORS, c’era la pagina WANTED CREATIVITY. All’epoca lavoravo come assistente, e la mia ragazza del tempo, molto più brava e intraprendente di quanto non fossi io, mi convinse a tentare. Passammo colloqui e prove, ci dissero che c’erano solo cinque posti e la possibilità che non prendessero entrambi. Accettai solo perché accettò lei, e alla fine presero tutti e due. Rimasi lì un anno».

«Ricordo che quando dovevo fotografare i Depeche Mode, per esempio, non li avevo mai ascoltati. Volevo trovarmi di fronte tre persone, non tre artisti. Non mi piace lavorare con i cliché». Mattia Zoppellaro

Quando hai fatto il tuo primo viaggio a Londra, città in cui poi sei tornato qualche anno dopo a vivere, te ne sei innamorato?

«No, non mi sono mai innamorato di Londra, né mi è mai piaciuta. Adoro la musica inglese, mi affascinano la loro cultura e letteratura, il problema è l’Inghilterra. A Fabrica mi avevano dato un assegnato per Gulliver Viaggi da scattare sulla metropolitana, avevo una settimana. Portai con me il portfolio. In metro compravo Mojo, Dazed and Confused e altri, poi chiamavo le redazioni e portavo le mie foto. Mojo, forse l’unica cosa che mi manca di Londra, mi ha fatto lavorare subito, per occuparmi di cose piccole e concerti, e sono rimasto in città per qualche settimana, e poi mi hanno chiesto di continuare. Un amico mi ha ospitato, i lavori hanno continuato ad arrivare e sono rimasto lì, anche se mi è pesato, in pianta stabile per 6 anni, e poi dal 2009 facendo la spola con Milano, finché è diventato troppo costoso. È stato comunque meglio che rimanere in Italia a fare l’assistente: è sempre stato più difficile per gli italiani affermarsi qui, c’è un gusto esterofilo, e all’epoca non mi guardava nessuno. Rolling Stone in Italia è stata la prima rivista che mi ha fatto lavorare in pianta stabile, dopo aver visto le mie foto sulle riviste londinesi».

Palto - Mattia Zoppellaro

Rispetto alle tue passioni, chi sono stati i tuoi mentori o ispiratori? C’è stato un calciatore che ti ha illuminato? Un regista? Un fotografo? 

«Il calciatore è sicuramente Michel Platini, per il fatto che non fosse né particolarmente veloce, né prestante: il suo calcio era fatto di cervello. Vedeva geometrie e lanci che nessun altro notava in un campo da calcio, aveva un intuito quasi artistico e una visionarietà paragonabile a certi pittori astratti. Non aveva chiaramente il genio o la sregolatezza di un Maradona, la potenza di un Pelé o la duttilità di un Cristiano Ronaldo, ma una visione del gioco che non ho mai più ritrovato in un altro calciatore. A ispirarmi, per il cinema, è stato Stanley Kubrick con “Arancia Meccanica”, l’ho visto a 14 anni per il mio compleanno – mia madre non si era accorta che era vietato ai minori di 18, ma ormai l’aveva noleggiato. Sono rimasto sorpreso a innamorarmi di Alex Delarge, un personaggio che normalmente disprezzerei. Ho trovato la manipolazione del mio pensiero talmente forte da parte del regista che ho pensato di voler essere anch’io il “dittatore” della testa di qualcuno, di volerlo sconvolgere, di sovvertirne il loro pensiero. Poi ancora i film di Hitchcock, o “Lo squalo” di Spielberg, pellicole in cui lo spettatore è posseduto dal regista, pensa con la sua testa, vede coi suoi occhi. In fotografia, quella che più mi colpì a metà degli anni Novanta fu Nan Goldin. Su D La Repubblica c’erano le sue foto degli anni Ottanta di New York, molto diverse dall’immaginario glam legato allo Studio54. Fui colpito da questi scatti crudi, grezzi, malati, però pur sempre pieni d’amore per i soggetti che li popolavano. Questa fotografa mi introdusse al punk. Poi mi ha appassionato il lavoro di Diane Arbus, il suo modo di sconvolgere la morale comune: fotografava i freak come fossero persone normali e viceversa. Mi piace insomma il contropiede, ciò che mi sorprende, vedere qualcosa che dovrebbe andare in una direzione e invece va in quella opposta».

Che rapporto hai con il collezionismo? Casa tua è letteralmente piena di libri, dischi, dvd.

«Mi piace avere le cose che mi piacciono, toccarle, possederle, sono fonti di ispirazione, però forse sì, è un’indole da collezionista. Da piccolo collezionavo monete, figurine, i Dylan Dog. Oggi lo considero un interesse che coltivo, un’occasione di accrescimento. Guardare le immagini per un fotografo è una continua palestra: il gusto non è una dote innata, ma una qualità che si forma. Ho sviluppato questa personalissima teoria: tutte le discipline che coinvolgono la riproducibilità (come cinema e fotografia) non necessitano di un talento innato, a differenza del piede del calciatore, della mano del pianista, non credo al cosiddetto occhio del fotografo. Quando penso all’unico talento veramente innato che ogni fotografo dovrebbe avere, penso alla curiosità».

«Vedevo i miei compagni che facevano parte di una squadra come degli eroi, mentre io mi sentivo una sorta di outcast: in questo posso dirmi una sorta di “fallito”, sostanzialmente». Mattia Zoppellaro

So che prima di uno shooting non ti prepari sulla persona che dovrai fotografare, e che improvvisi molto. Un altro modo per rimanere sorpreso?

«In genere io non fotografo per denunciare, bensì scelgo i miei soggetti in base a ciò che mi affascina, e che mi interessa conoscere più profondamente. È una sorta di curiosità egoistica che mi spinge a fotografare qualcuno o qualcosa. Non fotografo quasi mai i miei amici o la mia ragazza (anche se in questo caso è lei a non volersi fare ritrarre da me), almeno non quanto faccio con gli estranei. Preferisco sempre non conoscere in modo approfondito i miei soggetti. Cerco di adottare questo modus operandi anche nei lavori commissionati. Ricordo che quando dovevo fotografare i Depeche Mode, per esempio, non li avevo mai ascoltati. Mi avevano regalato tutti i loro dischi prima dello shooting, ma non ho sentito neanche un pezzo, perché volevo trovarmi di fronte tre persone, non tre artisti. Non mi piace lavorare con i cliché».

 

Quand’è per te che un ritratto è riuscito?

«Non credo mai che un ritratto rispecchi la persona, come non credo che la fotografia dica la verità. Come dice Avedon: “Se vuoi sapere cos’è veramente successo nella seconda guerra mondiale non guardi le foto, ti leggi un libro”. Una fotografia per me è riuscita quando stimola tante domande e fantasie, così come un’opera d’arte, un film, un libro. La curiosità è ciò che muove un fotografo e dev’essere per me anche quello che suscita una foto. Una fotografia funziona quando ti intriga e allo stesso tempo non ti lascia totalmente soddisfatto. Devi alzarti con la fame.

In progetti come quello sugli Irish Travellers ti concentri sul tema del singolo che vuole a tutti i costi fare parte di un gruppo, oggi attualissimo e su cui però secondo me non si riflette abbastanza, proprio perché ci troviamo a essere da un lato molto più individualisti, dall’altro sempre esposti al giudizio. Continui a rifletterci?

«Sono sempre interessato al rapporto, talvolta paradossale, tra il singolo e il gruppo. Discorso molto attuale in questa società dove internet, e il populismo dilagante la fanno da padroni, in quest’epoca dove chiunque cerca di influenzare o seguire qualcosa o qualcuno. Penso che tutti cerchino di far parte di un gruppo, o comunque ne siamo parte anche indipendentemente dalla nostra volontà. È proprio su questo tema che sto sviluppando il mio ultimo progetto, incentrato su Rovigo, iniziato nel 2017 e che a breve vorrei pubblicare. Considero la mia fotografia antropologica, una ricerca che preferisce conoscere, anziché informare, la realtà».

Senti in questo rapporto anche un elemento autobiografico?

«In effetti sì. Forse tutto nasce dal mio amore, purtroppo non corrisposto, per il calcio. Dal mio desiderio di far parte di un gruppo, la squadra, che mi ha sempre “rimbalzato”. Vedevo i miei compagni che facevano parte di una squadra come degli eroi, mentre io mi sentivo una sorta di outcast: in questo posso dirmi una sorta di “fallito”, sostanzialmente».

Un desiderio?

«Le riviste per cui vorrei fotografare di più sono, in modo abbastanza prevedibile, il New Yorker e il New York Times Magazine. Mi piacerebbe fare un libro con Mack, la mia casa editrice preferita di fotografia. Più che essere pubblicato in certe riviste mi piacerebbe però fotografare certe persone. Non mi interessa tanto il dove vado a finire, ma cosa faccio. Mi piacerebbe ritrarre Nick Cave, per la sua aura maledetta, quasi una sorta di aureola nero-pece. Anche Maradona, o Tyson, persone di fama mondiale che portano con sé una storia interessante, controversa, travagliata, con un’immagine pseudoreligiosa. Sia che tu vada in una favela in Messico o a Rodeo Drive a Beverly Hills tutti sanno chi sono».

Come ti vedi tra 10 anni?

«Non lo so. Spero sempre meglio, non sono mai veramente soddisfatto o appagato nel mio lavoro. Considero sempre il prossimo lavoro come il più importante, e l’ultimo realizzato come quello che mi definisce maggiormente. Spero sempre che la gente che guarda il mio lavoro sia invogliata a fotografare, più di ogni altra cosa».


Articolo: Alessandra Lanza    Fotografie: Mattia Zoppellaro 

alessandra lanza

Giornalista e fotografa di stanza a Milano. Origini biellesi, studi filosofici in curriculum e un'incontenibile passione per musica, fotografia e viaggi alla scoperta di tutto quello che ancora non conosce.