Nadia Terranova, Scrittrice: lettere a un invisibile

Nadia Terranova Scrittrice

Nadia Terranova è autrice di romanzi e di libri per ragazzi. Per Einaudi ha scritto gli acclamati “Gli anni al contrario” e “Addio fantasmi”. Il suo ultimo libro è “Non sono mai stata via”, un racconto illustrato della vita della grande filosofa andalusa del Novecento Maria Zambrano. Stefano Sgambati l’ha intervistata.

 

 

Nadia Terranova. Grande scrittrice. Dovremmo parlare di letteratura, di stilemi, di arte; ci ritroviamo invece a parlare di padri e di figli, di vini fruttati; e parliamo di libri sì, a un certo punto della nostra diretta su Zoom parliamo anche di libri: Nadia volta verso la telecamera un paio di volumi pescati dalla sua ricchissima libreria per mostrarmi le copertine: si tratta della serie per bambini “Doris Fantasmagorica”, La devi assolutamente regalare a tua figlia, mi dice (per inciso, ho obbedito, ordinati tre volumi via Bookdealer). Poi finiamo anche a litigare sul grado di cottura della carne, a lei piace molto cotta, non “al sangue”, e a me qui parte un mansplaining da infarto: Ma quello non è sangue, sbraito, quella cosa rossa che vedi è una proteina che si chiama mioglobina! Tu mangi mioglobina disattivata! Se ti piacciono le proteine morte, accomodati pure!

Ok, ridiamo: pur non conoscendola così bene, qualcosa nel modo di fare di Nadia  mi rasserena e dunque mi induce a strafare. Né siamo amici: viviamo in città diverse, ci siamo sempre incontrati raramente. Però frequentiamo lo stesso ambiente professionale, quindi capita che ci si veda. Presentazioni di libri, eventi, fiere editoriali. Lei è sempre quella vestita bene, ma in modo divertente. È quella gentile, posata, serafica: la sua stessa figura rimanda a qualcosa di ottocentesco, ma allo stesso tempo è anche quella che non dovresti sorprenderti troppo di trovare a un incontro di lotta clandestina tra pittbull.

«La scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso». Nadia Terranova

Non la conosco così bene, Nadia, e in un certo senso ne sono sollevato, perché so — non ne ho le prove, ma lo so — che lei sarebbe l’amica che mi mancherebbe tantissimo, se in effetti fossimo amici e vivessimo in città diverse. Quella da cui andrei col pensiero chiedendomi: Che cosa farebbe lei in questa situazione? Ma anche: Ci metterebbe più o meno aceto di così in questa caponata? Lo stesso, pressapoco, mi capita leggendo i suoi libri, il bellissimo “Gli anni al contrario”, il meraviglioso “Addio fantasmi”, cioè che io mi fidi completamente di lei, come autrice, e che riesca ad avvertire il peso del mio corpo annullarsi a favore dell’esperienza letteraria pura.

Non penso mai, leggendola, all’artificio che per forza di cose esiste, trattandosi, be’, di un libro, di una cosa fisica che ho tra le mani, che si compra, che esiste; mi godo la fluidità della scrittura, una fluidità complessa, straordinaria da guardare succedere: l’ape che rimane immobile a un millimetro dal fiore, quella stasi solo apparente, in realtà frutto di migliaia di battiti d’ali al minuto, al netto di uno sforzo colossale, così grande che è spiegabile solo con l’indole, con lo stato di natura. Nadia Terranova, da scrittrice, solleva pesi enormi senza stringere gli occhi, o forse sì, forse li stringe e soffre e si spaventa e alla fine crolla esausta, ma quando questo succede noi non ci siamo. Non ci siamo più o non ci siamo ancora.

«Oggi scrivo perché da bambina scrivevo a mio padre. La scrittura per me è da sempre collegata alle lettere che inviavo a papà quando lui era in comunità. C’è stato per tre anni, quando io avevo sette, otto, nove anni e ci scrivevamo di continuo. Ho ancora quella corrispondenza che credo rappresenti in qualche modo un romanzo. Parte di essa è stata l’ispirazione per lo scambio di lettere tra Mara e Giovanni negli “Anni al contrario”. Io sono sempre quella bambina che scriveva per sedurre, ingannare, mentire, intrattenere suo padre, soprattutto adesso che lui è morto. L’idea di mandare lettere a un invisibile mi ha sempre affascinato: per me la scrittura è mandare lettere a persone invisibili».

Il dolore che Nadia Terranova mette nei suoi libri, i traumi che muovono le azioni dei personaggi non costituiscono un numero da circo, non sono cerchi infuocati in cui saltare per aizzare un pubblico: il padre in comunità, la madre, il passato, l’irrisolto, la malattia, tutto questo è materiale narrativo che l’autrice usa per raccontare un mondo: non il suo, un mondo, tra quelli narrativamente possibili. Più che un vuoto da riempire, un “pieno” da svuotare. E poi, naturalmente, l’amore per i fantasmi. Mi viene in mente a tal proposito l’ultimo, bellissimo libro di Emanuele Trevi, “Due vite”, che a un certo punto fa così:

«Con la scrittura evochiamo anche i fantasmi delle persone che sono state, persone ancora vive». Nadia Terranova

«La scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne, accorgendosi presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta».

Lo sottopongo a Nadia, chiedendole un commento.

Dice: «C’è una sorta di evocazione medianica in questo passaggio, come anche nel libro precedente di Trevi. Il lavoro che lui fa con la scrittura, il tirare fuori delle vite dei suoi amici, è molto interessante. Per me la scrittura è dialogo con l’invisibile e quindi prevalentemente con i morti. Sono anche d’accordo con l’eccezione positiva del termine “fantasma”. Con la scrittura evochiamo anche i fantasmi delle persone che sono state, persone ancora vive: quando ho scritto “Gli anni al contrario”, ispirandomi alle vicende di mio padre e di mia madre, non era solo il fantasma di mio padre che evocavo, ma anche quello di mia madre, che era ed è viva e vegeta, pur non essendo più la stessa persona da me raccontata, non è più quella ragazza, è come se io nel libro avessi evocato qualcun’altra: tra la mia madre del libro e quella che veniva per esempio alle presentazioni a sentirmi parlare c’era una terza persona cioè quel personaggio letterario».

Mentre parliamo succedono cose. Qualcuno suona al citofono, Nadia più volte si alza e si risiede dalla sua poltrona viola per prendere libri, o per cambiare posizione: credo che lei sia una di quelle persone che per cambiare posizione deve ricominciare tutto da capo. Non può semplicemente spostare una gamba o mettere meglio un braccio, no: si deve alzare, deve scrollarsi di dosso la posizione precedente, non più desiderata, scalciarla via lontano e prenderne una nuova, neutra, indossarla e vedere se va. Gambe su, gambe giù, ginocchia di lato, ginocchia dall’altro lato, schiena ingobbita, schiena dritta, le mani si muovono componendo e scomponendo figure nell’aria, continuamente. Mi dispiace non poter essere nella stessa stanza con lei, questa versione del suo corpo segato a metà dall’inquadratura sento che me ne consegna una parte solo parziale, ma questo è e andiamo avanti.

Cambio di argomento. Sicilia, Messina, mar Mediterraneo, trecento giorni di sole all’anno. Come può questa donna, questa scrittrice, questa siciliana assoluta essere felice a Roma, dove vive dal 2006, tra le grinfie del quartiere Pigneto? Come può sopportare il Tevere al posto del mare? Per di più, in un’intervista abbastanza recente che ho scovato in rete l’ho beccata a dire: “Nel Tevere ho ritrovato il mio mare”. Adesso che ce l’ho quasi-davanti, adesso che ce l’ho qui, glielo dico, le dico Nadia, guarda io non ci credo che hai detto davvero una cosa del genere. Eri drogata? Lei si agita in poltrona, con movimenti del corpo tellurici di cui ho già detto, e subito le scatta il sorriso. Penso: oddio, adesso mi picchia (non abbiamo ancora litigato sulla cottura della carne). Invece mi fa: «Senti, è vero che ho cercato un rapporto con l’acqua anche a Roma, ma è anche vero che da quando mi ci sono trasferita ho cominciato a capire che questa non è proprio una città di acqua, né di fiume né di mare. Mi sa che è una leggenda che Roma sia una città di mare. Perché lo dicono? Nemmeno a Ostia riesco a sentire il mare. Quindi alla fine mi sono data pace e ho capito che l’acqua di questa città è il fiume, il Tevere. Ecco, questo era il senso di quella mia risposta».

Decido di assolverla dai suoi peccati e le chiedo di questi mesi, umanamente e sanitariamente disastrosi ma forse letterariamente complessi e interessanti, se è vero com’è vero che per uno scrittore tutto è un’opportunità, anche la malattia, anche il dolore, basti vedere ciò che ha fatto Nadia con la morte del padre e con la morte in generale. Come già detto, le “rovine”, il trauma sono istanze alla base della sua letteratura ed è sempre così bello, magnificente, come una valanga che crolla su un piccolo villaggio romantico, constatare, almeno per me, la bellezza di qualcuno che sa alternare la grazia alla disgrazia con così evidente naturalezza, nonché un certo godimento.

Il bambino, d’altra parte, non fa sconti e vuole arrampicarsi dappertutto, su un albero fiorito come su un monumento funebre.

«Capii che in quel mondo, nell’editoria per ragazzi, c’era la possibilità di fare proposte e si poteva venire pubblicati anche da sconosciuti». Nadia Terranova

«Di sicuro non ho sofferto la solitudine. Amo la solitudine: certo, la posso scegliere perché non sono anziana non sono malata, faccio un mestiere per cui è necessaria e soprattutto quando mi va posso smetterla. Ma la solitudine è sempre stata una condizione dentro cui sono stata molto bene. Direi che è stato l’aspetto che meno mi ha pesato in questi mesi. Né mi ha colto alcun senso di inquietudine. Certo, sto male per il senso di morte. Il pensiero soprattutto di poter essere contagiosa senza accorgermene. È la mia unica fobia da quando è iniziata la pandemia: il terrore di fare ammalare i miei cari senza saperlo».

E cosa, invece, ti rende felice?

(Faccio un piccolo salto nel futuro, di qualche secondo, fingo che abbiate già letto la risposta che segue, la risposta di Nadia su cosa la rende felice, d’altra parte tra pochi attimi e qualche riga lo avrete fatto davvero e di sicuro starete pensando ciò che vi sto anticipando qui e cioè: non è forse strabiliante, ammirevole e anche un po’ intimorente quando le persone riescono a definire così bene il loro concetto di felicità? Per me questa domanda — Che cosa ti rende felice? — nasconde una questione impossibile, inestricabile, apparentemente retorica ma che io credo, invece, essere anche una cartina di tornasole perfetta, un liquido di contrasto per capire di quanta intelligenza e bellezza sia dotata una persona. La risposta di Nadia, adesso la state davvero per leggere, è un incanto, e si badi che il suo elenco mi è arrivato per voce, in tempo reale, senza una riflessione né di ore, né di minuti, un flusso ininterrotto e impulsivo che io non ho fatto altro che riportare testualmente. Quando qualcuno sa restituire in modo così chiaro cosa lo rende felice significa che la felicità esiste e questa è sempre una buona notizia e fa felice anche me).

«La felicità per me è quando ho avuto tra le mani la prima copia degli “Anni al contrario”, quando sto sulla poltrona viola e metto il telefono in modalità aereo, socchiudo un po’ la luce e rimango a leggere nella casa completamente silenziosa; quando trovo un libro per ragazzi con delle illustrazioni bellissime, quando mangio la granita, cioè non proprio la granita, in realtà si chiama la “mezza con panna”, il mezzo bicchiere con la panna e la brioche, proprio quello di Messina, quella che mangio esattamente in quel baretto che si affaccia sullo stretto, scrauso ma è il più buono di tutti. Quando vedo le foto di mia nonna che ride e mi ricordo di com’era, la sua voce, la sua risata; quando un bambino viene da me e mi dice che vuole fare lo scrittore, quando trovo un buon vino che mi piace veramente, un vino bianco fruttato ma che non ti invade il palato di frutta, quando mangio la pasta molto al dente e quando mangio la carne molto cotta senza nessuno che mi faccia la ramanzina, quando vado in viaggio ad Atene, una delle mie città preferite soprattutto d’inverno».

Nadia Terranova è anche una formidabile autrice di libri per ragazzi. “Bruno. Il bambino che imparò a volare”, per le edizioni Orecchio acerbo, un grandissimo successo basato sulla storia del gigantesco scrittore Bruno Schulz; “Le Mille e una Notte raccontate da Nadia Terranova”, per La Nuova Frontiera Junior, “Casca il mondo” e “Omero è stato qui” (Bompiani), quest’ultima una bellissima raccolta di storie a cavallo del lembo d’acqua che separa Messina da Reggio Calabria, tanto per offrire un elenco solo parziale.

«Fino a dodici, tredici anni ho letto tantissima letteratura per ragazzi, poi con Pirandello mi sono avviata alla letteratura così detta per adulti. Un po’ mi vergognavo. Andavo da Feltrinelli, sceglievo degli illustrati, tipo “Hugo Cabret”, oppure “La riparazione del nonno” di Stefano Benni, o cose più pop e commerciali, la serie “Sulle punte” di Beatrice Masini, infilavo questi libri tra i miei Fitzgerald, i miei “Viceré”, tanto che la commessa mi metteva puntualmente da parte i libri per ragazzi e mi chiedeva se li volessi incartare. Pensava a un regalo, non che fossero per me. La lasciavo fare. Passione naturale e poi la svolta: “‘Bruno. Il bambino che imparò a volare” fu il mio primo successo, totalmente inaspettato, mentre attendevo ormai da mesi una risposta da Einaudi per quello che sarebbe diventato il mio primo romanzo, “Gli anni al contrario”. Capii che in quel mondo, nell’editoria per ragazzi, c’era la possibilità di fare proposte e si poteva venire pubblicati anche da sconosciuti. Così ho cominciato a darmi a questo tipo di scrittura, in primis gli albi illustrati: sono più brevi, e scrivendoli è come se scattasse qualcosa di simile alla poesia. Io non ho mai scritto poesia, ma gli albi illustrati sono la cosa che più ci si avvicina e credo che dentro ci finisca in effetti tutta la poesia che leggo: quella necessità di infilare la parola giusta, di incastonarla bene. Ho praticamente sempre voglia di scrivere un albo illustrato. Discorso diverso per i romanzi per ragazzi che sono più lunghi: lì mi piace usare tutti gli archetipi che da bambina mi facevano volare: le estati, i boschi, le nonne magiche, gli animali, la morte, i bambini che sono chiamati a essere più grandi dei loro genitori. In genere quando uno scrittore per adulti scrive “per ragazzi” scrive cose super paternalistiche, come se abituato a scrivere per i suoi simili a un certo punto elargisse dall’alto della sua sapienza. In realtà funziona al contrario: penso a Collodi, a Bianca Pitzorno, a Margaret Wise Brown, a Pamela Travers, ecco loro non è che scrivevano per bambini perché si sentivano più saggi o intelligenti, ma scrivevano per bambini perché così liberavano il bambino che era in loro. Quando io scrivo per bambini o per ragazzi sento di poter essere Nadia Terranova senza le rughe intorno agli occhi. Mi diverto, ma non sono una bambina vera: sono un’adulta che usa strumenti letterari precisi».

Dobbiamo salutarci, e salutarsi su Zoom ha sempre un non so che di mortuario, le immagini dei volti, prima che la diretta si chiuda effettivamente, si scompongono in piccoli rombi di pixel e per un momento si rimane nell’abitazione dell’altro, oltre l’altro, quando l’altro già non c’è più, si è staccato, ma permane il fantasma, il corpo freddo inanimato, che non è più lì ma resiste: ancora per sette o otto secondi io vedo lo studio di Nadia, la sua poltrona viola, i suoi libri, e mi coglie la consueta malinconia che in questi mesi di Covid, restrizioni e isolamenti è diventata incontenibile (per dirla con David Foster Wallace: “Mi manca chiunque”). Nelle ore successive discutiamo a distanza di vocale su Whatsapp ancora per un po’, dando piccoli colpetti di accordatura all’intervista appena fatta e parlando soprattutto di carne e di battuta di Fassona.

Ricevo anche qualcosa che si avvicina a una ricetta — le braciole messinesi: “Stracotte”, mi assicura, per convincermi che esiste un mondo possibile di carni non al sangue, cioè di proteine morte —, infine vado a letto, mi spengo, e quando torno alla vita, l’indomani, trovo un altro vocale di Nadia, con un’ultima riflessione, con la quale mi piace finire questo nostro piccolo viaggio insieme: «Comunque il fantasma della mucca viva o morta che noi ci mangiamo al sangue ci perseguiterà».


Articolo: Stefano Sgambati
Shooting fotografico: Sara Sabatino 

 

 

Stefano Sgambati

Contributor - Writer

Scrittore, editorialista e autore televisivo.