Jacopo Cardillo, in arte Jago, non è solo un artista, ma un artigiano. Uno scultore che è stato il più giovane ad esporre alla 54^ edizione della Biennale di Venezia, quando ancora frequentava la scuola. Scopriamo la sua storia.
Esiste un tempo in cui si cerca. E un altro in cui si trova. Si scopre quel qualcosa che ci appartiene da sempre, qualcosa che senza saperlo era già dentro di noi e stava solo aspettando di essere scovato. Esso rappresenta tutto quello che in verità vorremmo diventare.
Lasciarlo in disparte o provare a dargli una forma assomiglia un po’ a quando bisogna decidere di compiere un salto. Ci vuole coraggio. Il coraggio di inseguire le proprie passioni, il coraggio di rischiare.
Perché è vero che restare fermi non farà cadere. Ma tanto poi si sa. Lo sanno tutti, che solo da là sopra, sentiamo di volare.
Anagni, Ciociaria. Al piano seminterrato, le persiane dell’ampio studio sono abbassate, le pareti spoglie. Solo un lungo tubo attraversa orizzontalmente quella di fondo, corre tagliandola in due metà asimmetriche. Nessun altro tipo di arredo. Nessun quadro. Nessun colore. Basta il rumore ben scandito di colpi metallici a riempire ogni centimetro. Dentro quel vuoto esso sbatte e si amplifica. Prevale su tutto vincendo il silenzio.
Jago è lì, al centro, all’origine di quel suono. È in piedi sotto l’unico cono di luce della stanza, davanti alla sua montagna di marmo. Ha i capelli rasati e un paio di occhiali a stanghetta per ripararsi dalle schegge. Sta lavorando ad un nuovo progetto con un martello e uno scalpello stretti tra le mani. Picchietta ritmicamente il primo sul secondo mentre il materiale superfluo precipita a terra come roccia che frana.
Ed io, io resto a guardarlo per diversi minuti. Osservo quei movimenti nascosta dietro lo stipite della porta e mi sorprendo di quanta abilità e forza possano rinchiudersi in un paio di braccia. Di quanta passione deve vivere in Jago per arrivare a stancarsi i muscoli pur di continuare a creare.
«Non mi basta semplicemente comperare un oggetto, lo voglio fare io direttamente. Quindi non sono soltanto artista ma anche artigiano, ci metto mente, cuore e mano. Invece oggi la maggior parte degli artisti preferisce farsi realizzare le opere, perché è diventato quasi poco importante il saper fare, come dire che sul “fare l’amore” ne possiamo parlare».
Per Jago, invece, il significato dello scolpire resta insito nel movimento stesso. Non dev’esserci mercificazione, non dev’esserci consumo dietro il suo oggetto d’arte. Scolpire per lui non è un lavoro, è una cosa che va al di là della passione, qualcosa capace di regalargli talmente tanto piacere che nulla può essere in grado di eguagliarlo. È il modo in cui sta al mondo, la sua dimensione.
«Non mi basta semplicemente comperare un oggetto, lo voglio fare io direttamente. Quindi non sono soltanto artista ma anche artigiano, ci metto mente, cuore e mano. Invece oggi la maggior parte degli artisti preferisce farsi realizzare le opere, perché è diventato quasi poco importante il saper fare, come dire che sul “fare l’amore” ne possiamo parlare». Jago
Questo forse perché in mezzo all’arte Jago c’è praticamente cresciuto. Ci si è trovato, da sempre. O meglio, come dice lui ce l’hanno accompagnato. Il padre architetto e la madre insegnante che quando era bambino lo portava con sé alle gite scolastiche. San Pietro, i Musei Vaticani, Villa Borghese. È proprio lì infatti, incontrandosi faccia a faccia con quelle meraviglie, che Jago ha iniziato a sognare, a capire che non si sarebbe accontentato di guardarle e di ammirarle soltanto. Avrebbe voluto costruirne di nuove.
Del resto, è figurandosi la vita in grande che alla fine si arriva a scoprire se stessi. Emulare i passi di artisti del passato l’avrebbe aiutato a trovare i propri. Anche se Jago, quando appena adolescente si era iscritto al liceo artistico di Frosinone, probabilmente ancora non lo immaginava che una decina di anni dopo sarebbe stato Sgarbi ad insistere per esporlo alla 54^ edizione della Biennale di Venezia.
«Era il 2011 e al tempo frequentavo ancora l’Accademia di Belle Arti, ero il più giovane ad esporre. Quando ci fu la conferenza stampa a Palazzo Venezia, Sgarbi disse una cosa interessante: “non c’è scritto da nessuna parte che un ragazzo non possa essere considerato artista pur frequentando le scuole”. Non è che tu sei artista quando qualcuno te lo dice. L’arte è una cosa talmente alta che non esiste nessuno che ti può dire tu sei artista. Quindi per me esistono due cose. La prima che tu sei artista quando lo riconosci a te stesso, perché la cosa serve a te. La seconda che tu puoi essere artista quando te lo riconosce una comunità. Quando tutti dicono “beh sì quello è un artista”».
È stato poi, fuori da quelle mura scolastiche, fuori dal sistema protetto dell’Accademia che Jago ha compreso di dover dimostrare al mondo il suo valore. Là fuori non c’erano più professori né compagni con cui confrontarsi e sentirsi capace. C’era solo lui, un numero tra i numeri.
Eppure lì in mezzo Jago ci si è buttato, senza paura, portando con sé il coraggio e la voglia di assecondare quel movimento a fare, a modellare qualcosa che fosse portavoce dell’uomo, delle sue potenzialità, delle sue fragilità. Carne, vene, pelle. Un battito cardiaco rappresentato in trenta cuori diversi per riprodurne la giusta pulsazione. Una mano che nasce dal marmo. Un bambino nella testa di un adulto. Sono solo alcune delle opere che paiono avere anima nella pietra. Opere che Jago ha scavato per mostrare cosa si cela nel profondo della materia. Sono forme metaforiche, a volte denudanti, a volte condite di sapiente cinismo, che smascherano l’interiorità umana resa morbida e viva attraverso parti di un corpo. Cavità, incisioni, minuzie portano con sé i segni di una riflessione che non lascia indifferenti.
«Carne, vene, pelle. Un battito cardiaco rappresentato in trenta cuori diversi per riprodurne la giusta pulsazione. Una mano che nasce dal marmo. Un bambino nella testa di un adulto. Sono solo alcune delle opere che paiono avere anima nella pietra. Opere che Jago ha scavato per mostrare cosa si cela nel profondo della materia. Sono forme metaforiche, a volte denudanti, a volte condite di sapiente cinismo, che smascherano l’interiorità umana resa morbida e viva attraverso parti di un corpo». Jago
Così mi permetto di chiederglielo, qual è per lui il senso di questo continuo bisogno di esprimersi, di spogliare per far vedere l’interno. «Un tempo avevo fatto un lavoro, avevo colorato con la grafite la superficie di un’opera in pietra e l’avevo impressa su un pezzo di carta. Avevo scritto che l’impronta è l’immagine dell’immaterialità del corpo. Nel senso che noi in continuazione lasciamo delle impronte, quando camminiamo, quando facciamo dei gesti, anche quando diciamo delle cose che si manifestano in emozioni.
Tutto quello che noi facciamo è un’impronta che rimane, mentre noi siamo avanti e in questo andare avanti ci dissolviamo. Così come la pietra che quando rotola giù dalla montagna lascia delle impronte che sono la testimonianza del fatto che lei si dissolverà, io stesso lascio un’impronta nella pietra. Ma quell’impronta che lascio è l’immagine del fatto che io me ne sto andando».
E se fosse una tua opera ad andarsene?
Jago sorride. «È successo. Anzi, l’ho accettato. Era il 2013, il giorno in cui vennero comunicate le dimissioni di Papa Benedetto XVI… a quel punto come lui si era spogliato delle sue vesti io d’impeto decisi di spogliare la sua opera. Fino a quel momento ero fortemente identificato con tutto ciò che producevo, ma nel momento in cui ho spogliato il Papa ho distrutto una parte di quell’attaccamento.
E quindi è stato un momento importante perché sì, io ho scolpito me stesso nella misura in cui ho distrutto l’attaccamento che avevo con quell’oggetto. Ecco, oggi io da quell’opera lì non sono più identificato con ciò che io produco. Ti faccio un esempio, se lo vogliamo paragonare a un figlio che viene messo al mondo, da quel momento ho compreso che l’opera d’arte come un figlio si mette al mondo, si dà, si restituisce e io sono stato solamente un tramite per quella cosa».
Articolo: Francesca Tessari Shooting fotografico: Lorenzo Morandi