Roberto Conti, Chef: la cucina mi dà dipendenza

Roberto Conti, chef, ha da poco lasciato la guida del ristorante Trussardi alla Scala di Milano. In questo articolo ci racconta la sua storia e quella di una stella Michelin perduta e poi ritrovata.

Ho conosciuto Roberto conti quando aveva 21 anni e stava già cercando di portare una nuova idea di cucina in una città di provincia come Vigevano. Sembrava vivesse in un universo parallelo con tutto un altro set di leggi spazio temporali. Stava almeno 15 ore al giorno in cucina, riusciva ad andare in palestra, vedere gli amici, stare con la fidanzata e non era mai stanco. Quindi si suppone riuscisse anche a dormire.

Lavorare con lui era come avere tra i piedi un bambino dispettoso. Non stava zitto un secondo, cantava, prendeva in giro tutti, tirava coppini e poi scappava e quando arrivavano i complimenti ai piatti si baciava il bicipite a dirsi: però alla fine sono bravo.

Tredici anni dopo l’ho ritrovato perfettamente uguale, più saggio forse, con una compagna, un bimbo di 15 mesi identico a lui e una stella Michelin tatuata sul braccio e nell’anima, un trampolino per saltare ancora più in alto.

Gli faccio la prima domanda e per un’ora e mezza non si ferma più. Mentre parla sembra sia legato alla sedia e che se potesse schizzerebbe in cucina a provare una nuova ricetta. Continuo a controllare che il registratore sia acceso perché è l’unico modo per fissare quel fiume in piena che è Roberto Conti quando parla del suo lavoro.
La sua è una cucina legata indissolubilmente all’Italia, gourmet ma comprensibile anche ai non addetti ai lavori. Essenziale alla vista, è una forma d’arte che diventa chimica, che diventa un foglio di Excel e quindi replicabile a suo dire da chiunque, senza la paura di perdere la sua esclusività.

La sua compagna lo guarda con un misto di adorazione e rassegnazione, il bimbo gioca ed è il ritratto della pace. Tutti e tre danno un senso di pace, sono un equilibrio perfetto e inspiegabile vista la presenza di Roberto nella stanza, che sembra sempre una pentola a pressione cui temi di togliere il coperchio.

Questa intervista è stata rimandata a causa di una grande sorpresa: dopo 9 anni al Trussardi alla Scala, dove hai raggiunto la tua prima stella Michelin, lasci la maison.
Solo l’altro ieri eri a Milano, stamattina a Parma, oggi sei a Vigevano, sono confusa. Cosa stai combinando?

«Il 28 febbraio è stato il mio ultimo servizio in Trussardi, l’indomani mattina sono a andato a Parma, ho fatto una riunione, stamattina un briefing, oggi ho fatto un salto a casa, finisco il trasloco, domani ho un altro briefing, il menu di startup è già pronto e sarò ufficialmente operativo dal 4 di marzo.
Entro al Grand Hotel De La Ville di Parma, un cinque stelle, come Chef Executive. Dirigerò ristorante, room service, bistrot e le colazioni in hotel. E questo è solo l’inizio del progetto.

 

Sono stato contattato dalla dirigenza dell’hotel che ha intenzione di fare un salto di qualità veramente grande. Finora nessuno ha voluto mettersi alla guida del progetto perché c’è davvero tanto lavoro da fare. Io l’ho accettato per quello. Perché è una missione difficile e se tra 4 anni siamo a regime e guardo indietro a questo momento, allora sì che mi bacio il bicipite e posso dirmi di essere stato bravo».

«Ho bisogno dell’adrenalina, di allenarmi tutto il giorno e provare la tensione di giocarmi tutta la partita in un servizio di 50 minuti». Roberto Conti

Al Trussardi hai ottenuto grandi risultati. Al di là di questa grande occasione che ti è capitata però, come mai la decisione di lasciare la maison?

«Auguro tutto il bene alla famiglia Trussardi. Se mi sono guadagnato la stella è anche grazie a loro, non sarei quello che sono adesso senza il loro supporto.
È semplicemente arrivato il momento di cambiare. Tomaso Trussardi mi ha detto letteralmente che gli ho spezzato il cuore, ma siamo in ottimi rapporti e spero davvero continui a essere così. Non stavamo più andando nella stessa direzione. Ho percepito la volontà di voler ovviamente mantenere uno standard molto alto nella ristorazione, ma allo stesso tempo renderla un po’ più accessibile.
Questo avrebbe significato per me non poter aspirare alla seconda stella Michelin.

 

E io una volta raggiunto uno standard non riesco più a scendere di livello, anzi, mi spinge a salire ancora di più. Se mi dessero tutto l’oro del mondo per lavorare in una trattoria, impazzirei al primo servizio. Ho bisogno dell’adrenalina, di allenarmi tutto il giorno e provare la tensione di giocarmi tutta la partita in un servizio di 50 minuti. È una dipendenza, ne voglio sempre di più.
Il Grand Hotel de la Ville era un po’ che mi cercava; quando sono andato a vedere la struttura l’ho trovata molto diversa da quello a cui ero abituato e ho capito che avrei dovuto sudare parecchio per portare a termine quello che mi chiedevano. E dal momento che non amo abituarmi, era esattamente quello di cui avevo bisogno.
Se può darti un’idea del divario tra gli standard, quando hanno saputo del mio arrivo in cucina hanno dato tutti le dimissioni».

Sei diventato così cattivo? Ti ricordo dispettoso, esigente, ma non un tiranno.

«Si dice che io abbia dei ritmi troppo alti. Dipende da quello che uno vuole. Se si vuole fare qualcosa di grande i primi tempi sì, c’è da impazzire. Ho detto che all’inizio il riposo non ci sarà per nessuno. Se hai la serata libera, ma arrivano tante prenotazioni, devi avere il telefono acceso, io ti chiamo e vieni a lavorare. L’eccellenza non si raggiunge senza sforzi. Mai. E se non erano pronti a questo, è giusto che rinuncino.

 

Quelli che hanno le mie stesse aspirazioni restano. I ragazzi con cui ho lavorato finora mi seguirebbero ovunque decidessi di aprire un ristorante. Immagino significhi che pretendo tanto ma che poi è anche molto quello che ti resta. Quando ho deciso di lasciare il Trussardi mi sono arrivati dei messaggi dai colleghi che mi hanno fatto commuovere. La cucina è un ambiente duro, ma io non faccio sentire stupido nessuno, cerco di insegnare in modo molto umano, perché lo sono, e soprattutto condivido tutto quello che so con i miei collaboratori. Al Trussardi ho lasciato tutte le mie ricette, non l’ha mai fatto nessun altro. Se sei più bravo di me a farle, io non sono invidioso, probabilmente sto già facendo altro e sono contento per te».

«Quando hanno saputo del mio arrivo in cucina hanno dato tutti le dimissioni». Roberto Conti

E dove trovi il personale per far partire una cucina con uno standard così alto in così poco tempo?

«La nuova brigata è già pronta, ma non devi immaginarti una brigata di chef. È ovvio che ci devono essere dei tecnici che sono i capo servizio, ma ad esempio l’ultimo che ho assunto fino a ieri ha lavorato come maggiordomo in un salone da parrucchiere di Parma. Io preferisco una persona pulita, sincera che abbia voglia di imparare e ascolta quello che deve fare, perché con il mio sistema non si può sbagliare.
Funziona così: io butto giù le idee con il mio sous chef, gli dico come vorrei il piatto, ingredienti principali, quanto acido, quanto dolce, e si fanno le prime prove. Il giorno dopo si va allo chef table e si decidono le correzioni. In media dopo 10 prove abbiamo trovato la ricetta, ma capita anche che arrivi dopo una ventina di tentativi. Il piatto viene poi codificato. Significa che viene creato un file di Excel con gli ingredienti al grammo e la procedura passaggio per passaggio. A quel punto è impossibile sbagliare. Potresti venire in cucina anche tu e farlo come lo farei io.


Durante il servizio poi lavoro alla francese, significa che la cucina è divisa per tipologia di alimenti. Mi spiego meglio con un esempio: se arriva l’ordine per un risotto alla crema di asparagi con gamberi, il cuoco dei primi prepara il risotto, lo manteca con la crema che gli ha preparato il cuoco delle verdure e quando arriverà al pass ci sarà il cuoco del pesce con i gamberi per finire il piatto.
Ogni elemento ha dei tempi diversi e viene preparato da persone diverse che devono arrivare al pass nello stesso preciso momento. Io li coordino, sono come un direttore d’orchestra. I musicisti suonano live, ma senza qualcuno a dirigerli la melodia non sarà mai perfetta. Poi ovviamente passo ad assaggiare per assicurarmi che lo standard sia sempre identico».

Il mondo della cucina gourmet si è ampliato molto negli ultimi anni, soprattutto a Milano. Perché una persona sceglie di andare a mangiare da Roberto Conti? Cosa trova nella tua cucina?

«La mia è una cucina molto leggibile anche per un mondo che non è gourmet quindi questo forse allarga il mio bacino d’utenza. Ma se dovessi descriverla in una sola parola, la mia è una cucina italiana. Il lavoro più grande che faccio è studiare le ricette di cento anni fa e riprodurre quei gusti. Anche mia nonna riconoscerebbe i sapori della sua infanzia se assaggiasse un mio piatto, nonostante sia preparato in modo completamente diverso.

Da un punto di vista estetico la cucina su cui voglio puntare si chiama monovisual. Significa che tutti gli ingredienti vengono racchiusi dentro all’elemento principale. Adesso ad esempio sto presentando una triglia che viene svuotata e riempita di un cilindro congelato di salsa alla livornese, richiusa ed enzimata per tornare a formare un pesce intero nel piatto. Quindi a tavola arriverà un piatto bianco con una triglia rossa sopra, che sprigionerà tutta la ricetta solo una volta tagliata.
Voglio che tutta la mia cucina riesca a portare nel piatto un solo elemento. Ma ci vorrà un po’ per realizzarla.

Oggi devi essere il più minimalista possibile. Devi portare una cucina dei primi dell’800, con un impatto visivo clamoroso ma pulito, un gusto amplificato all’ennesima potenza e molto più leggero e digeribile. In passato quando mangiavi un piatto ottimo, il prezzo da pagare erano ore di digestione, mentre con le nuove cotture riusciamo a ottenere lo stesso piacere per il palato, ma che ti consente di tornare a lavorare senza problemi. Siamo molto attenti a questo aspetto. Che tu mangi un piatto solo o un menu degustazione da 10 portate uscirai dal ristorante sempre sazio, ma mai stravolto dal cibo».

Ho letto che avrai mangiato 100 lepri à la royale per trovare la ricetta giusta e metterla in menu e che ci vogliono almeno 4 giorni per cucinarla. Suona quasi come un’ossessione. Perché tanto accanimento, cos’ha di speciale?

«Mangiare la lepre à la royale è come misurare la febbre del cuoco. È il cuoco. Secondo me nessuno può definirsi un cuoco se non sa cucinarla. Perché è così difficile e allo stesso tempo così facile, così buona, così ricca di particolari che possono renderla un piatto eccellente o un fallimento. Quando esce dalla cucina inonda di profumo tutta la sala, mi fa impazzire.
L’ho studiata 4 anni, ne ho parlato con chef stellati, avrò letto, non so, 1.000, forse 2.000 ricette, guardato centinaia di video su Youtube su come la facevano i contadini, ho letto Joël Robuchon, Pellegrino Artusi, ricette medievali. Ho utilizzato le ricette di una volta rielaborandole con le tecniche di oggi cercando di non perdere quel gusto. La lepre deve essere necessariamente cacciata, bisogna partire da un gusto molto selvatico, lavorarla in modo che il sangue irrori la carne rendendola molto ferrosa, per poi addolcirla con la cottura. Anche quando mi hanno detto che era buonissima, io ancora non ero soddisfatto. L’ho messa in menu solo gli ultimi due inverni.
Pochi giorni fa, l’ultima grande soddisfazione che ho avuto al Trussardi. Due clienti hanno ordinato due lepri à la royale e nient’altro, erano venuti per quello. Tieni presente che quel piatto ti dà una soddisfazione al palato e un senso di sazietà, che io non mangerei altro per due giorni. Be’ loro, nonostante fossero pieni, ne hanno prese altre due».

È un ambiente competitivo e a volte addirittura crudele. Hai mai avuto un momento in cui hai pensato di lasciar perdere? Quando ti hanno tolto la stella Michelin, ad esempio, o perché i ritmi ti impediscono di stare con le persone che ami?

«Mai successo. Non esagero, sono fatto così. È strano a dirsi, ma ogni giorno sono sempre meno stanco. Forse fisicamente no, ma più sono stimolato, meglio mi sento. Le sfide non mi fanno paura, mi accendono.
Quando ho scoperto che avevano tolto la stella al Trussardi sotto la mia direzione ho pianto, è vero. Erano le 4.30 del mattino, ero in casa da solo e ho pianto. Poi mi sono ricomposto e ci ho riflettuto: avevano fatto bene.
Innanzitutto ora sono contento perché così ho potuto riguadagnarla, altrimenti sarebbe stato solo un trascinare l’eredità del ristorante che apparteneva a qualcun altro. Inoltre, paragonato ai ristoranti stellati in cui ho lavorato, non ero ancora pulito nei gusti, c’era margine di errore, che ora abbiamo ridotto a zero, i gusti si mischiavano e i piatti erano ancora visivamente un po’ confusi.

Per quanto riguarda l’avere poco tempo libero a me non è mai pesato. Non ci posso fare niente, non riesco nemmeno a immaginare di poter fare altro, io sto bene in cucina. Voi dite che i miei ritmi sono stremanti, ma quando io entro in un ufficio e sento l’incessante ticchettio delle dita sulla tastiera mi fa l’effetto delle unghie sulla lavagna. Fidati, vi stancate di più voi. In 15 ore di lavoro noi cuciniamo, creiamo, ci sediamo a bere un bicchiere di vino, discutiamo. C’è molta più libertà mentale.

Quelli che mi stanno vicino ne hanno sempre sofferto un po’ di più. Ora ho la fortuna di avere una compagna che mi supporta; sicuramente neanche per lei è facile, ma mi ha sempre capito. Con la nascita di mio figlio indubbiamente la situazione si è complicata, lo vedo poco e ovviamente mi dispiace, ma non posso smettere di spingere adesso. Devo tenere duro qualche anno e poi troverò il modo di avere un bilancio del mio tempo più a favore della famiglia».

Nonostante i grandi progetti per il Grand Hotel De La Ville, ho sentito che potresti aprire anche un ristorante qui a Vigevano. Perché? E come farai a portare la tua cucina in una dimensione più provinciale?

«Vigevano è casa mia, non ci sarà mai un posto che mi piacerà come Vigevano. Probabilmente non ci tornerò mai stabilmente, ma ne sono innamorato, quindi la mia cucina deve vivere anche lì. Sicuramente sarà molto più difficile proporla a Vigevano che a Milano, è una sfida anche quella, quindi non posso non accettarla. Il menu va studiato in modo da portare l’eccellenza con prodotti adatti alla clientela di riferimento. I finanziatori ci sono già tutti, la squadra è pronta, sto solo aspettando di definire ancora un paio di dettagli e poi si può partire.

Ho in mente un po’ di progetti, ma per quanto in alto voglia arrivare, resterò sempre legato alla mia città. Anche se un giorno sarò a lavorare a New York, cosa che potrebbe succedere tra qualche anno, un salto a Vigevano lo farò sempre».

 


Articolo: Roberta Razzani  Shooting fotografico: Giuseppe Ippolito