Ognuno di noi ha pensato almeno una volta nella vita a reinventarsi, immaginarsi altrove, proiettarsi in una vita del tutto diversa da quella che sta vivendo, per scelta o costrizione, per passione o per dovere. Vite parallele, immagini di noi in percorsi alternativi, esperienze possibili se solo avessimo avuto più coraggio, se solo fossimo stati in grado di rischiare di più, credere in qualcosa di diverso, o semplicemente se avessimo, quel giorno, deciso di prendere un’altra strada, quella che era ad un passo dal noi di oggi, ma che abbiamo scelto, per una ragione o per l’altra, di non intraprendere. A qualcuno capita come risposta alla routine quotidiana, una sorta di fuga dal mondo cui si appartiene, ad altri dopo una delusione o alla fine di un percorso. A volte invece ti capita di trovarti nel posto giusto al momento giusto e quel sogno, quell’idea di un te stesso diverso, può diventare reale. A Patrizia è capitato così, dopo un viaggio. Nel 1997 Patrizia è volata da turista a New York e si è immaginata lì una nuova figura di sé. È proprio a New York che oggi, dopo quindici intensi anni di vita, la incontriamo nel suo appartamento a Kips Bay, a due passi dall’Empire State Building.
«Nel 1997 sono venuta a NYC come turista e mi sono letteralmente innamorata della città. In particolare sono rimasta colpita dai grattacieli e soprattutto dall’Empire state building, dalla sua eleganza. Mi ha ricordato un gentiluomo, mi ha trasmesso un senso di protezione. Mi sono detta: ‘prima o poi voglio venirci a vivere’. E così è stato. Oggi esco di casa e non mi scordo mai di salutare quel gentiluomo elegante, che è proprio qui a due passi».
Patrizia parlaci di te. Innanzi tutto da dove vieni e quando hai deciso di trasferirti a New York?
Le mie origini sono calabresi. Sono nata a Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza. Mia madre è però di origini toscane per cui mi sento di appartenere ad entrambe le regioni. Durante il periodo universitario mi sono trasferita a Firenze per studiare architettura e lì ho cominciato a lavorare in uno studio, come architetto appunto. Nel 1997 sono venuta a NYC come turista e mi sono letteralmente innamorata della città. In particolare sono rimasta colpita dai grattacieli e soprattutto dall’Empire, dalla sua eleganza. Mi ha ricordato un gentiluomo, mi ha trasmesso un senso di protezione. Mi sono detta: prima o poi voglio venirci a vivere. E così è stato. Oggi esco di casa e non mi scordo mai di salutare quel gentiluomo elegante, che è proprio qui a due passi.
A New York però non fai l’architetto, ma sei famosa per la tua linea di gioielli: raccontaci come è nata questa passione che poi è diventata un mestiere.
Per raccontarvi questo passaggio mi viene in mente una frase molto famosa di Ernesto Nathan Rogers, l’architetto che ha progettato torre Velasca a Milano: «dal cucchiaio alla città». Rogers l’ha usata per spiegare come l’approccio creativo dell’architetto, il metodo, sia alla fine lo stesso, dalla piccola alla grande scala, dalla progettazione di un cucchiaio, di una sedia, di una lampada a quella di un grattacielo. Mi ritrovo molto in questa frase. Penso che l’architettura sia una disciplina capace di offrire una visione del mondo a 360 gradi, è solo una questione di scala.
E così sono passata dalla progettazione architettonica a quella dei gioielli. La scala è indifferente, tutto si affronta per gradi a seconda del livello di difficoltà, suddividendo in step. Alla fine la difficoltà maggiore è quella di avere una visione globale del progetto e così, come i grattacieli seppur a scala ridotta, anche i gioielli diventano piccole opere di architettura.
Come è avvenuto per te il passaggio dalla piccola alla grande scala, da Firenze a New York?
Ogni passaggio è stato graduale in realtà. Dopo la prima visita mi ci sono voluti tre anni per prendere la decisione di trasferirmi a New York. Una mia compagna di liceo all’epoca viveva a Boston ed è stata per me un primo fondamentale appoggio. Da lì ho trovato una posizione all’interno di un’azienda di arredamento a New York: è stato proprio come trovarsi nel posto giusto al momento giusto, e a volte nella vita serve anche questo. L’azienda mi ha sponsorizzato il visto per cui mi sono finalmente trasferita ed ho cominciato a lavorare prima come dipendente poi come arredatrice d’interni freelance.
Quando mi sono trasferita a New York è accaduta una cosa molto spiacevole: mi sono entrati i ladri in casa e mi hanno rubato tutto. Gioielli, soldi, tutto il mio passato praticamente. È stato difficile accettarlo e soprattutto ricominciare. Ma è stato per me l’impulso e la motivazione di partenza. Trasformare il negativo in positivo. Da quel momento ho deciso che i miei gioielli me li sarei creati da sola. Una provocazione, uno schiaffo morale a quanto accaduto. E così è stato, è partito tutto così. Ho iniziato a frequentare dei corsi da un orafo, a imparare le tecniche e a creare i miei primi gioielli. L’ispirazione me l’ha data e continua a darmela questa città con tutti i suoi colori, gli scarti e soprattutto la gente, osservo molto la gente, è grande fonte di ispirazione per me.
Parliamo di stile: i tuoi non sono classici gioielli, tutto nasce dal concetto di riciclo. Gioielli eco-chic, cosa sono e come nasce questa idea?
Esatto. I miei gioielli nascono proprio dal riciclo di oggetti che usiamo tutti i giorni e che poi gettiamo via. Ho iniziato a collezionare i tappi del latte attratta dai colori, da lì ho avuto l’idea di fare il calco in metallo prezioso e creare quindi un oggetto che avesse in sé il prezioso e il non prezioso. Tutta l’idea di base è quindi partita da questa collezione chiamata “Milk cap”, una collana che ha come pendente proprio il tappo del gallone di latte insieme al calco in argento pieno. Il concetto di partenza sono gli scarti del quotidiano. Oltre ai metalli, col tempo ho aggiunto perle e pietre preziose.
Molto spesso sono le persone che, mettendo da parte oggetti che non utilizzano, mi danno l’idea. Pezzi su cui sfogare la mia creatività. La cosa bella è che questi oggetti non vengono solo da persone conosciute, ma al contrario soprattutto da persone a me sconosciute, amici di amici o vicini di casa che sentono o leggono di quello che faccio e che mettono da parte il materiale; senza di loro non sarebbe possibile raccogliere tutto il necessario. Una mia amica, ad esempio, non sapeva cosa fare con delle molle e ne abbiamo realizzato una collana; un’altra collana è stata ricavata dai contenitori monouso di collirio che mi ha messo da parte un amico dopo un’operazione agli occhi e che ha preso il nome dalle sue iniziali “LU”. Le macchinine del figlio di un’amica si sono trasformate invece in elementi per una coppa in silicone. Dalla raccolta degli elastici dei broccoli, collezionati dal mio amico cuoco Sal, è nata la collezione “SAL”, dalle lenti a contatto la collezione “Eye” e cosi via. Ho iniziato così, per gioco, per provocazione, ma poi ho avuto bisogno di un passaggio. Sono stati la mia amica Carmencita Bua, la stessa ad avermi ospitato a Boston, ed il suo compagno Gianfranco Zaccai ad aprirmi gli occhi. Quando gli ho mostrato le mie opere sono rimasti entusiasti: «this is genius!». Allora, quando ho iniziato, l’idea del riciclo non era ancora sviluppata nel campo dei bijou e dei gioielli di lusso. Sono stati proprio loro ad aprirmi gli occhi da questo punto di vista. Per me era un hobby, loro mi hanno dato la spinta per passare dal divertimento alla creazione del brand, del logo e di tutto il necessario per iniziare a vendere.
Nel 2007, grazie a Gianfranco, è nato “GlobalcoolO”, un nome irriverente, ironico e provocatorio che proprio lui mi ha suggerito. Un nome che ha all’interno l’antitesi data dal riciclo di oggetti: contro il riscaldamento globale propongo un’alternativa ecologica, un “raffreddamento”. La “O” finale è del tutto ironica, richiama la mia natura e il mio essere italiana, che nel tempo si è trasformata in un mondo.
Oltre alle persone quanto è stata importante New York nel darti la possibilità di intraprendere questa strada?
New York è stata fondamentale. Nel mio modo di vivere, nelle mie creazioni c’è il riflesso di una certa classicità, data dalla mia formazione, dalla cultura italiana in cui sono cresciuta, ma c’è di più, c’è la marcia in più di New York, c’è il saper osare. In Italia avrei avuto molto timore ad intraprendere questa strada, paura di sperimentare o di non essere capita, mentre qui hai la sensazione di poter essere te stesso al 100%, nessuno ti giudica, anzi, troverai sicuramente qualcuno che ti capisce e ti apprezza. Rendere i sogni possibili, reali, è ciò che mi ha insegnato New York.
Nella tua carriera hai diverse collaborazioni alle spalle e i tuoi gioielli sono apparsi sia alla Couture Fashion Week sia al Museum of Art and Design di NYC, ma chi sono i tuoi clienti ora?
Con le collezioni, molto diverse tra loro, mi rivolgo a tutti, bambini compresi. Con il passare del tempo il target si è rivelato un pubblico adulto, dai 40 anni in su, amante dei pezzi unici e dell’arte, ma non solo. È da aggiungere che non faccio solo gioielli ma anche alcune opere a scala più grande: oggetti, pezzi d’arte o lampadari rivolti a spazi espositivi. Un’opera cui sono molto affezionata è esposta in uno showroom di Chelsea: si tratta di un lampadario realizzato con più di 500 tappi di acqua minerale. Quando sarà dismesso lo regalerò a Carmencita e Gianfranco, senza di loro tutto questo non sarebbe stato possibile.
Gioielli unici, pezzi unici, nomi molto particolari ed ironici: cosa altro ricorre nelle tue opere?
Due altri aspetti che ricorrono sono la musicalità e l’utilizzo del colore. Ogni mio oggetto in qualche modo comunica non solo un messaggio, quello ecologico, ma si esprime anche a livello visivo e sonoro. È per questo che molto spesso i miei oggetti piacciono anche ai bambini, li trovano attraenti, colorati, musicali. Ciascun oggetto produce un suono proprio, ciascuno ha una propria plasticità e può trovare più forme di utilizzo. Un mio amico batterista utilizza alcuni miei bracciali tra i suoi strumenti, ad esempio. Un’altra ricorrenza nelle mie opere è la forma del tondo. In tutte le mie creazioni ritorna il cerchio, come il ciclo della vita, l’infinito. Non credo che sia un caso che ritorni anche nella “O” finale del logo, il mondo, la circolarità, la perfezione. Tra i nomi ironici dei miei gioielli invece mi piace ricordare il “Warm Hug”, il nome che ho scelto per una stola che in sé dovrebbe essere calda, ma che ho realizzato assemblando le gabbiette metalliche che assicurano il tappo allo spumante ed è pertanto, essendo metallica, “fredda”.
La creatività che esprimi con il tuo lavoro si riflette in altri aspetti della tua vita?
Credo che una personalità creativa rifletta la sua creatività in tutti gli ambiti che la circondano. Un ambito del quale sono particolarmente fiera, e da cui sta nascendo un nuovo progetto, è quello della cucina. Sono cresciuta in una famiglia che mi ha insegnato tanto da questo punto di vista e mi ha trasmesso tanta passione. Cucino da sempre. Da quando vivo in America tengo a rispettare la mia tradizione culinaria, tengo a far conoscere la mia terra, la Calabria e la Toscana. Penso, inoltre, che il processo creativo alla base dei miei piatti sia molto simile a quello della creazione dei gioielli: io, la cucina e la mia creatività. Seleziono le materie prime, le lavoro e le trasformo.
Mi appassiono alle cose ricercate, sofisticate, amo sperimentare, soprattutto giocare con le spezie. Posso passare ore a pulire delle bacche di pepe del Sichuan o giorni ad essiccare, polverizzare e macinare rape rosse per ottenere gli ingredienti per i miei piatti, tutti rigorosamente lavorati a mano, colorati. È come quando pulisco 100 pezzi di argento, mi piace quel lavoro manuale, ripetitivo, minuzioso, mi trasporta in un’altra dimensione. Il colore, poi, ricorre molto, oltre che nei miei gioielli, anche nella mia cucina: mi piace cucinare avendo a tema un colore e presentarlo per tutte le portate.
«Casa per me è dove un giorno avrò una famiglia. In questi anni ho capito che non c’è niente di bello nel tornare in una casa vuota».
Ci hai parlato di un nuovo progetto legato alla cucina: di che si tratta?
Una cosa su cui sto spingendo molto adesso è quella di propormi come chef a domicilio. È iniziato tutto dalle lezioni di italiano ai figli di una cliente. I bambini si annoiano subito, per trovare un modo divertente ed interattivo di fare lezione sono partita dalla cucina. Abbiamo cominciato ad andare al supermercato con l’unica regola di parlare solo italiano, imparando quindi direttamente dagli oggetti, nominando gli ingredienti, la frutta e la verdura, per poi passare alla cucina dove i piatti preferiti sono le polpette con il cuore di mozzarella filante ed il Tiramisù.
La nomea di questo dolce mi accompagna sin dai tempi dell’università, ero famosa tra i compagni per il mio Tiramisù e lo sono anche in America. Dal cucinare con i bambini all’idea di chef a domicilio il passo è stato breve. Le mie ricette sono molto apprezzate e, come rimedio alla fretta newyorkese, un’altra idea molto apprezzata dalle famiglie è quella del menù settimanale. Ogni settimana propongo un nuovo menù e cucino in una giornata per l’intera settimana delle cose che la famiglia può mettere in frigo o congelare e mangiare quando preferisce. Ogni settimana nuovi ingredienti, nuove sperimentazioni; per Natale ho già in mente una serie di nuove idee ma per i bimbi non mancano mai le polpette!
Un vulcano di idee e tante possibilità di sperimentazione qui a New York, ma cosa è “casa” per Patrizia? Pensi che tornerai in Italia prima o poi?
“Casa” per me è dove un giorno avrò una famiglia. In questi anni ho capito che non c’è niente di bello nel tornare in una casa vuota. Molti mi rimproverano come le scelte fatte fino ad ora siano andate nella direzione opposta, mi vedono, e sono, una persona molto indipendente: questa volontà di cambiare, di rischiare, di fare sempre cose nuove ed anche reinventarsi. Ma è proprio reinventandomi giorno dopo giorno che ho imparato chi sono, quello che voglio e soprattutto quello che non voglio dalla mia vita. New York per me è stata tutto e il contrario di tutto e l’adorerò sempre, come sempre adorerò il suo essere fluida e destabilizzante. È proprio vivendo questo che ho capito, che ho riscoperto quanta tradizione ci sia dentro di me e quanto in questo riemerga la mia italianità, l’essere legata a certi valori, la famiglia prima di tutto. Ogni passaggio ti insegna qualcosa. Dal 2010 ho la doppia cittadinanza, ma solo perché ho potuto mantenere quella italiana, altrimenti avrei rinunciato.
Oggi sono qui, ma so da dove vengo. In risposta a chi mi chiede se credere nei propri sogni abbia un senso, o se sia vero che non sia mai troppo tardi per realizzarli o realizzarsi, mi piace rispondere: why not? In fondo, l’unico limite a te stesso sei solo tu.
Articolo e shooting fotografico: Maria Elia Natali