Alzi la mano chi, solo una decina di anni fa, avrebbe pensato di ritrovarsi oggi in una Milano “europea”. Una città che in questa decade ha subito profondi cambiamenti: alcuni, visibili ed evidenti, come la rinascita architettonica della zona di Porta Garibaldi. Altri, forse meno appariscenti, ma altrettanto fondamentali.
C’è un’aria nuova, quindi, a Milano. La si percepisce non solo dal profondo restyling che la città ha subìto, ma anche dal fermento che la attraversa non solamente a ridosso di eventi di portata internazionale come il passato Expo, il Salone del Mobile e la Settimana della Moda.
Il capoluogo meneghino si fa ora sempre più culla di nuove tendenze e sperimentazioni: lo si vede dagli store, dai ristoranti e dai locali che spuntano non solo nei luoghi classici della movida milanese, ma anche in quartieri una volta abbandonati a se stessi e considerati, a torto o a ragione, mera periferia.
MILANO si fa ora sempre più culla di nuove tendenze e di sperimentazione: lo si vede dagli store, dai ristoranti e dai locali che spuntano non solo nei luoghi classici della movida milanese, ma anche in quartieri una volta abbandonati a se stessi e considerati, a torto o a ragione, mera periferia.
In questa nuova era milanese, la città è tornata a essere per molti la porta dei sogni. Una porta che Patrizia Bevilacqua, barlady di origini partenopee del Clotilde Bistrot, a pochi passi da Porta Garibaldi, ha deciso di varcare con una tenacia e una determinazione non comuni.
Siamo andati a Milano a trovare Patrizia Bevilacqua per ascoltare la sua storia: un racconto che parla di predestinazione, amore per le proprie radici ma anche convinzione nel prendere decisioni difficili a scapito di una convenzionale confort zone.
Grazie di averci accolto qui al Clotilde Bistrot, Patrizia. Possiamo iniziare parlando dei tuoi esordi nel mondo del bartending?
Devo i miei inizi nel mondo del bartending ad una persona speciale per me: mio padre Gianpaolo Bevilacqua, bartender professionista, capo barman AIBES nonché vincitore di svariati riconoscimenti. Ha avuto il grande merito di avvicinarmi a questo mondo in punta di piedi: ricordo, ad esempio, di una bottiglia Bols che faceva bella mostra di sé nell’angolo bar di casa nostra. Da bambina ne ero affascinata perché la bottiglia aveva alla base un carillon con una ballerina: la voglia di giocarci era tanta. Mio padre se ne accorse e ogni volta la sua frase era la stessa: «ora non è un gioco per te. Ci giocherai quando sarai diventata grande».
Questa frase continua a rimanermi in mente ancora dopo tanto tempo.
Nel momento della scelta delle scuole da frequentare, nonostante la mia passione per l’arte decisi di iscrivermi controvoglia alla scuola alberghiera di Napoli. La scintilla per il mondo del bartending non scattò subito. Ci vollero tre anni per appassionarmi veramente a questa disciplina. E in questo cammino mio padre ha costituito la figura centrale.
Non solo era mio insegnante alla scuola alberghiera, ma fin da quando avevo sedici anni mi ha introdotto nel mondo del lavoro per insegnarmi due cose fondamentali: la fatica necessaria per guadagnarsi da vivere e il valore dei soldi. Lavoravo con lui da apprendista tornando a casa ogni giorno anche alle 4 del mattino. Per poi essere sui banchi di scuola solo qualche ora dopo.
«in questo cammino mio padre HA costituiTO la figura centrale. Non solo era mio insegnante alla scuola alberghiera, ma fin da quando avevo sedici anni mi ha introdotto nel mondo del lavoro per insegnarmi due cose fondamentali: la fatica necessaria per guadagnarsi da vivere ed il valore dei soldi».
Quando avvenne il primo approccio al bartending professionista?
Fu per me un’autentica sorpresa. Mio padre mi chiese di accompagnarlo ad una gara di bartending a Parma. Come unica sua raccomandazione, un tailleur da indossare durante la giornata. Una volta partiti in aereo da Napoli, mi svelò che a gareggiare non sarebbe stato lui, ma io. Rimasi senza parole. Il volo proseguì con una lezione dettagliata su come preparare il «Red Smile», il cocktail che lui aveva scelto per il concorso e che avrei dovuto realizzare io sul palco. Mi spiegò per filo e per segno le azioni che dovevo fare: gli ingredienti da utilizzare, come maneggiare le bottiglie, come guarnire e versare nel bicchiere. Il tutto senza nessuna esperienza precedente: prima di allora non avevo mai nemmeno lavorato in un bar, avevo solo qualche nozione di merceologia grazie ai miei studi alberghieri. Giunti a destinazione, non appena salita sul palco mi sentii attraversare da un brivido.
Riuscii a classificami terza nella categoria gran cocktail. Avevo sedici anni ed ero alla mia prima esperienza in assoluto. Quella di Parma è stata la prima delle 47 gare a cui ho partecipato fino ad oggi. Gareggio ancora perché quando salgo su quel palco ricordo quel giorno in cui mio padre mi guardava realizzare il suo sogno: un momento che rimarrà scolpito per sempre nella mia mente.
Dopo questo primo “impatto” con il mondo del bartending come è proseguito il tuo percorso formativo?
Una volta ottenuto il diploma dell’Istituto Alberghiero mi sono alternata tra concorsi, svariate esperienze da barlady in diversi locali tra Napoli, Formentera e Porto Cervo e il corso di laurea in Scenografia con specialistica in Fotografia. Oggi metto a frutto i miei studi unendo la fotografia con il mondo della ristorazione: è il mio modo di coniugare le due grandi passioni della mia vita.
Arriviamo al tuo sbarco a Milano, poco prima dell’apertura di Expo, dove hai ricoperto il ruolo di barlady presso la Terrazza Martini.
Mi sono innamorata a prima vista di Milano, per la sua praticità nel vivere il quotidiano quando si parla di lavoro e di trasporti. Naturalmente Napoli rimane nel mio cuore, e per me rimane la città più bella del mondo. Ma Milano non è poi così grigia come la descrivono.Il primo impatto con la scena milanese del bartending mi ha catapultata direttamente negli anni ’30, in un locale speakeasy. Il termine fa riferimento ai bar segreti che fiorivano negli Stati Uniti ai tempi del proibizionismo: luoghi nascosti coperti da attività lecite dove si entrava da ingressi nascosti e solo se a conoscenza della parola d’accesso. I miei amici e colleghi barman mi portarono a notte fonda di fronte alla vetrina di un negozio che aveva tutta l’aria di sembrare una salumeria ma che, una volta entrati, si rivelò tutt’altro: una parola sussurrata, una porta che si apre e all’improvviso mi trovai in un luogo d’altri tempi. Ero appena entrata nel 1930, nato da un’idea di Flavio Angiolillo e Marco Russo. Impossibile non innamorarsi di un posto come quello. È stata l’occasione per presentarmi a Flavio, raccontargli un po’ di me e della mia ricerca di un lavoro nel settore.
«I miei amici e colleghi barman mi portarono a notte fonda di fronte ALLA vetrina di un negozio che aveva tutta l’aria di sembrare UNA salumeria ma che, entrando, si rivelò tutt’altro: una parola sussurrata, una porta che si apre e all’improvviso mi trovai in un luogo d’altri tempi».
Qualche giorno dopo ricevetti una sua telefonata: mi propose di andare al suo posto al Salone del Gusto a preparare un cocktail, il “Milanese”, per conto di Martini & Rossi. Ecco, quella telefonata ha cambiato la mia vita. Flavio mi aveva concesso fiducia a prima vista facendomi conoscere e lavorare per un’azienda di caratura internazionale. Non lo ringrazierò mai abbastanza per questo.
Poco tempo dopo inizia la tua avventura come unica barlady per Martini & Rossi in occasione di Expo.
La chiamata è stata improvvisa, in poco tempo ho dovuto cercare una nuova sistemazione e farmi trovare pronta per l’inaugurazione del primo maggio. Expo ha rappresentato per chi ci lavorava un’esperienza incredibile: ognuno di noi era parte integrante di una comunità che si incontrava la mattina a prendere la navetta e si ritrovava poi a vivere intere giornate nella stessa aria. Si camminava tra i padiglioni con la sensazione di essere in quel momento al centro del mondo: per gli odori che si percepivano, per il cibo, per gli incontri con centinaia di persone di etnie differenti che non potevano non arricchirti. Inoltre, a conclusione della giornata, con la chiusura dei cancelli dei visitatori, avevano inizio delle feste segrete che potevano durare anche fino all’alba. Per quanto riguarda il mio ruolo da barlady in Terrazza Martini, oltre ad essere stata un’esperienza speciale, mi ha permesso di rappresentare il locale ed il brand anche da un punto di vista mediatico.
Durante il nostro incontro al “Clotilde” sembravi perfettamente inserita nel contesto, sia del locale sia dietro al bancone, come se fosse da sempre il tuo habitat naturale. È sensato cogliere un nesso con i tuoi studi universitari in scenografia che ti permettono di immedesimarti in questo contesto come se tu fossi su un palcoscenico?
Più che dietro il bancone, il nesso con i miei studi di scenografia lo ritrovo nel tocco artistico che ho dato a tutti i drink che ho sviluppato negli anni: sicuramente l’idea di creare una sorta di “installazione” nel cocktail, come ad esempio le decorazioni fluttuanti, nasce anche grazie ai miei studi universitari. Il drink ha vita breve, e l’unica testimonianza che ne rimane è data dalla fotografia. Un cocktail non si beve e basta, per gustarlo veramente è necessario soddisfare non solo il gusto ma anche la vista. La qualità della presentazione aumenta esponenzialmente la voglia di berlo. Al Clotilde dedichiamo particolare attenzione a questo aspetto, sempre con la consapevolezza dei tempi ristretti che un cliente ha per godersi un drink prima o dopo una cena.
Non si corre il rischio di diventare troppo ridondanti?
No, mi ritengo una barlady totalmente slegata dalle mode odierne. Metto in pratica esclusivamente quello che mi piace, sia nel vestire come nel mondo del lavoro. Per quanto mi piaccia dare un tocco artistico ai drink che realizzo credo che la soluzione vincente sia sempre la semplicità nelle decorazioni. Un drink deve essere buono, bello da vedere ed eseguito rapidamente. Tutti i miei drink sono rivisitazioni di ricette IBA poco sofisticate. Non sono nemmeno un’appassionata dell’utilizzo di sciroppi, riduzioni o distillati home made. Un cliente che chiede un Americano può ricevere una rivisitazione della ricetta originale, ma senza esagerazioni.
Dalle tue parole si evince come nel tuo percorso di ricerca per la creazione di un nuovo drink tu riponga particolare attenzione alla ricerca di ingredienti di qualità: è corretto?
Uso solo prodotti che ho avuto la possibilità di toccare con mano, di assaggiare e di conoscere l’azienda produttrice dall’interno, magari anche con una visita allo stabilimento. Perché quando parlo di alcolici e di preparati voglio farlo solo con estrema cognizione di causa. E per farlo devo conoscere il brand, la qualità e il valore intrinseco che ne deriva. Sono contraria all’utilizzo di prodotti che strizzano l’occhio al cliente ma che non meritano attenzione, qualitativamente parlando.
Se tu potessi pensare ad una valigia immaginaria dove riporre quanto ti è più caro, cosa porteresti con te della tua città natale?
Sono molto legata agli oggetti più che alle persone perché spesso sono gli unici a rimanere. Nella mia valigia non manca mai l’attrezzatura da bartender e l’indispensabile per il viaggio. Nel cuore, il dispiacere di non stare vicino ai miei genitori. Ma sono convinta che il cordone ombelicale si debba necessariamente tagliare per permettere a ognuno di noi di poter condurre la propria vita alla ricerca delle proprie aspirazioni. Non voglio accontentarmi di un comodo lavoro sotto casa: sono felice solo se sento la mia vita evolversi, sia mentalmente che professionalmente.
«Sono molto legata agli oggetti più che alle persone perché spesso sono gli unici a rimanere».
Decenni di cinematografia italiana e estera ci hanno trasmesso lo stereotipo del barman come amico e confessore del cliente che si siede al bancone alla fine di una giornata di lavoro. Quanto ti ritrovi in questa figura?
Effettivamente l’immagine del barman psicologo non è molto lontana dalla realtà. Siamo in grado di ascoltare, a volte anche di comprendere e di dare conforto, consapevoli di rappresentare una sorta di valvola di sfogo. Mi ritengo molto intuitiva nel capire lo stato d’animo dell’avventore che viene nel mio locale. Anche il solo spiegargli la genesi e la realizzazione del drink che andrà a bere permette di stabilire una relazione e dare un lato umano a quel determinato momento. Perché la persona seduta di fronte ha anche bisogno di questo: sentirsi protagonista in quel momento. La stessa cosa che vorrei percepire io, ogni volta che mi siedo da sola in un locale.
«NOi BARtender Siamo in grado di ascoltare, a volte anche di comprendere e di dare conforto, consapevoli di rappresentare una sorta di valvola di sfogo. Mi ritengo molto intuitiva nel capire lo stato d’animo dell’avventore che viene nel mio locale.Anche il solo spiegargli la genesi e la realizzazione del drink che andrà a Bere permette di stabilire una relazione e dare un lato umano a quel determinato momento. Perché la persona seduta di fronte ha anche bisogno di questo: sentirsi protagonista in quel momento. La stessa cosa che vorrei percepire io, ogni volta che mi siedo da sola in un locale».
Articolo: Mauro Farina Shooting Fotografico: Adriano Mujelli