Matteo Marchi, Photographer basket NBA: essere nel posto giusto

Matteo Marchi si è trasferito a New York per inseguire un sogno: diventare un fotografo accreditato presso l’NBA. Scopriamo in questo articolo l’autore dell’immagine di copertina di SportWeek dedicata a Marco Belinelli.

Da fotografa conosco bene quello stato mentale in cui ci si può trovare mentre si scattano delle foto. Guardi il tuo soggetto in modo diverso da come facevi un secondo prima, soltanto perché ora tra voi c’è la lente. Sei parte della storia che stai raccontando ma non sei nella storia, sei presente ma distaccato.
Diversamente non potresti essere “presente” nel tuo racconto, perché per raccontare una storia con le immagini devi lasciarti prendere, ma mai fino in fondo. Detto questo, non posso nascondere che più il soggetto del tuo raccontare ti piace e più il lavoro ti appassiona.


Le persone però non sono soltanto “cose”, ma mescolano nel loro essere eclettici molte sfaccettature. Sussiste il rischio concreto – nel mio caso accidentalmente –  di scoprirsi anche “tifosi”.

È un attimo finirci dentro.

Ti portano a una partita, all’inizio ci capisci poco, ti lasci incuriosire dalla curva molto colorata e molto creativa nel modo di sostenere la squadra. Poi, nel tempo, scopri la storia che c’è dietro a una società, le sue vicissitudini, le sfide vinte e quelle perse. Vai a una seconda partita e già guardi le cose con un occhio diverso. Alla terza partita è fatta. Sei un tifoso.

 


Non capisci ancora tutte le regole, ma soffri e gioisci insieme ai ragazzi sul parquet e a quella curva di fedelissimi che guardavi con tanta curiosità. Canticchi per incitare la squadra, trattieni il respiro quando quella la palla a spicchi arriva a lambire il ferro del canestro.

Ora, la mia domanda è: come fa un super tifoso, che ha fatto del basket la propria vita, a diventare un fotografo accreditato proprio del suo sport più amato puntando a livelli altissimi come lNBA?!

Come fa a non digrignare i denti quando il pallone batte sul ferro, o a non inveire contro la squadra avversaria quando quella del cuore soffre nella battaglia? Lho chiesto ad uno che di basket ci capisce e che lo ama da sempre.

Matteo Marchi, imolese classe 1982, ci ha raccontato cosa succede quando sei contemporaneamente fotografo e tifoso di basket, e lo ha fatto a modo suo con la sua esperienza, le sue avventure e disavventure, e il suo spirito che lo spinge sempre un passo più avanti, ad ogni nuova partita.

Inizia a fare il fotografo “per puro caso”, dice lui. Non per passione o per sogni di gloria, ma perché aveva semplicemente bisogno di un lavoro. Provvidenza volle che un amico di famiglia cercasse in quel momento un aiutante per dei lavori di contorno nel proprio studio fotografico. Così, tempo e necessità fanno sì che Matteo Marchi inizi a dare una mano mettendo il naso nella fotografia vera e propria. Scatto dopo scatto, occasione dopo occasione, si orienta verso quello sport che lo accompagna da sempre nella vita, prima come giocatore, poi allenatore e poi appunto, fotografo: il basket.

Basket italiano, quindi “pallacanestro”. Dai livelli giovanili a quelli agonistici, Matteo Marchi assiste a innumerevoli partite e fotografa ogni categoria. Durante questa sua gavetta ha la possibilità di seguire il basket anche durante le Olimpiadi in ben due occasioni, a Londra 2012 e a Rio de Janeiro 2016.

«Aver visto Emanuel Ginobili uscire dal campo, a testa quasi bassa per nascondere le lacrime, col pallone di gara sottobraccio mi emoziona ancora adesso». Matteo Marchi

Un giorno, però, realizza di aver ormai visto e fotografato tutta la pallacanestro a disposizione in Italia. L’ambizione e la curiosità tipica del fotografo lo spingono a guardare oltre oceano, in quella parte del basket tanto nominata e conosciuta anche intorno a casa, ma ancora troppo distante per poter entrare nel suo obiettivo: lNBA.
Istintivo, pioniere, avventuroso e forse anche un potestone, Matteo Marchi decide di raccogliere i risparmi, quei pochi contatti buoni che ha al momento, e lascia lItalia con un normale visto turistico per provare a entrare nel mondo della fotografia NBA, ma – come sempre nella vita – ogni piccola conquista va sudata.

I colloqui procedono bene, sia con la NBA che con le agenzie, ma serve ancora un visto, uno serio e duraturo che gli permetta di stabilirsi a New York per un tempo sufficientemente lungo da poterci provare seriamente. Ottiene il visto speciale destinato agli artisti dopo mille peripezie e più di un anno di calendario, e inizia concretamente la sua avventura come fotografo NBA.

Non ve la racconterò io però la sua storia, da qui in poi è bene che lo faccia lui.

«Mi chiamo Matteo Marchi, ho 34 anni, pochi capelli e tanta barba; di mestiere faccio il fotografo (o perlomeno così dice la gente) e sono alla mia seconda Olimpiade. Ho seguito all’Olimpiade di Rio “solo” i tornei di basket maschili e femminili, ma vi posso assicurare che come impegno basta e avanza. Se per voi 76 (SETTANTASEI) partite in 2 settimane sono poche, io alzo le mani».

 

Sono queste le parole di Matteo, nellagosto 2016, che racconta con tutto il suo sarcasmo e senso dellironia, una serie di realtà e situazioni semi-comiche, in cui ognuno di noi può riconoscersi. Non ognuno, in effetti, soltanto chi combatte anima e corpo per tentare di realizzare il proprio sogno.

«Faccio foto di basket da una vita, e nel mio palmares ho 2 Olimpiadi, 4 Europei maschili, 3 Europei femminili, 2 Mondiali maschili, 2 Mondiali femminili, 30 Europei giovanili e tanto altro. Il mio sogno è di diventare un fotografo NBA… un pocome tutti voi che sognate di conquistare Scarlett Johansson a bordo di unutilitaria nera. Le probabilità che succeda davvero sono le stesse».

Vi confesso una cosa: quando ci siamo incontrati a Bologna, a luglio, ho avuto subito due impressioni diverse di una stessa persona. Esistono due lati molto evidenti di Matteo Marchi: il primo è quello pubblico, visibile che appare forte e deciso, ironico e con quella sicurezza in se stesso che serve per fare certe scelte. Poi, quando inizia a raccontare la sua vita, esce l’altro Matteo: un ragazzo riflessivo, introverso, analitico, forse troppo. Realista appena oltre il limite del pessimismo, scettico e sarcastico.

 

 

 

«Vogliamo parlare un po‘ di basket? Parliamo di essere a bordo-campo e vedere i migliori giocatori del mondo da un metro: cose che avevo già visto tante volte eh, ma non ti abitui mica mai! Il momento più emozionante della mia prima Olimpiade? In assoluto è stato vedere un giocatore della grandezza di Emanuel Ginobili salutare tutti alla fine del quarto di finale contro Team USA. Un concentrato di classe, timidezza e rispetto per il gioco che mi ha lasciato con la pelle d’oca nel mentre e anche per una buona mezz’ora dopo. Ho avuto la netta sensazione di stare fotografando un momento storico, qualcosa che rimarrà per sempre nella storia di questo sport. Un personaggio a cui tutti noi dovremmo dire grazie per anni e anni ancora. Averlo visto uscire dal campo, a testa quasi bassa per nascondere le lacrime, col pallone di gara sottobraccio mi emoziona ancora adesso anche solo a descrivere la scena.
E poi, un altro momento super toccante è stato vedere piangere un mio collega come un bambino. Il mio amico Hervè, fotografo francese che lavora per la federazione del suo paese, vedendo perdere la sua amata Equipe National contro la Spagna nei quarti ha realizzato che quella squadra era alla fine di un ciclo. Stavo andando da lui per chiedergli una cosa e lui si è girato verso di me con gli occhi gonfi. Non ho saputo fare altro che abbracciarlo forte senza dire niente, pensando a quanto questo sport possa regalare emozioni, in un modo o nell’altro. Quello forse è stato il più bel piccolo – grande momento di questa grande storia».

Persona “normale” come ognuno di noi; nostalgia di casa, della salsedine, di cose semplici come i giri in macchina sui colli vicino casa, di notte, con tutti e quattro i finestrini abbassati. I messaggi vocali tra amici che da quanto sono lunghi sono diventati audiolibri.
Le serate che quando rientri a casa albeggia. Le scorpacciate di tagliatelle al ragù e di carne al sangue, che quando ti alzi da tavola devi allentare la cintura di un buco, altrimenti scoppi. Cose forse ovvie, ma che se sei italiano, e vivi a NYC, potresti volere fortemente.

 

Ad ogni sua scelta importante immagino una sorta di battaglia interiore, e credo di non sbagliare di molto. Lo conferma il fatto che chi finisce per parlare con le immagini ha sempre paura di farlo con le parole, perché sa di non avere pensieri chiari e a volte neanche tanto lineari.

«Lo so, è passato del tempo. E di cose ne sono successe tante. Negli ultimi due mesi, queste montagne russe, che sono oramai diventate la costante della mia povera esistenza, mi hanno portato su e giù, e poi una serie di svariate vie di mezzo, condite con una vita sociale praticamente inesistente e una condizione lavorativa più che precaria che mi lascia appeso a cose di cui spesso ignoro persino lesistenza. Tutti i giorni sono bombardato da pensieri su cosa vorrei fare, come dovrei farlo, dove dovrei andare. E non riesco mai a darmi una risposta. Credo di essere nel posto giusto, ma non riesco a capire se è il momento giusto. E ho sempre paura, come è successo migliaia di altre volte nella mia vita, di avere il puzzle quasi finito, ma di non riuscire mai a trovare gli ultimi due pezzi per completarlo. E ho il sospetto che chiamare il signor Ravensburger per chiedergli dove cavolo li abbia messi non sia possibile.

 

 

«Tutti i giorni sono bombardato da pensieri su cosa vorrei fare, come dovrei farlo, dove dovrei andare». Matteo Marchi

Un altro episodio che possa raccontarvi quanto oramai la mia popolarità abbia raggiunto livelli da Belen Rodriguez, è stato quando, a bordo di un lussuoso autobus da 10 dollari sulla tratta NY-Philadelphia, un ragazzo seduto dietro di me, sentendo il mio accento italiano, ha cominciato a parlarmi e a chiedermi cosa facessi nella vita. Quando gli ho detto che mestiere faccio e cosa sarei andato a fare a Philly, mi ha sparato questo commento: “ma non sarai mica tu quel fotografo italiano che lavora per la NBA?”. Magari lavorassi per l’NBA!».

La storia di come abbia creato l’immagine di copertina di SportWeek dedicata a Marco Belinelli, facendo interpretare Rocky sulla mitica scalinata del Philadelphia Museum of Art ad uno dei più famosi giocatori italiani di oggi, non la leggerete qui, perché la nostra star oggi è Matteo Marchi, ma vi consiglio di andare a leggere i suoi diari sulla pagina La Giornata Tipo perché solo così potrete conoscere una parte dell’individuo dietro l’obiettivo, e vi assicuro che vi ci affezionerete in poche righe.
Qui vi riporto un piccolo estratto del suo diario dove racconta uno dei momenti più emozionanti che l’America ha saputo regalargli fino ad oggi:

 

New York, interno giorno. Un tranquillo pomeriggio di gennaio sono dal mio barbiere di fiducia, un emigrato italiano che pensa che le parole CAPEESHH (capisci) e GOOOMBAH (cumpà) siano italiane e benedette dall’Accademia della Crusca, e sto aspettando che sia il mio turno. Sfrucugliando col telefono, mi accorgo che ho appena ricevuto una email: “Ciao Matteo, ti abbiamo trovato su Instagram, ci piace il tuo lavoro, vorremmo che venissi a fotografare per noi sul set di Creed II che cominciamo a girare tra poco. Che ne dici, ti interessa?”

Per chi non lo sapesse, Creed II è il seguito di Rocky, praticamente è come se fosse Rocky 8. Capite tutti la portata della cosa, VERO?!?

Dopo aver deglutito la saliva, il primo pensiero è stato che fosse il mio amico Daniele che stesse mettendo in piedi uno scherzo di cattivo gusto. Il secondo pensiero è stato “ma forse hanno sbagliato numero”, ma poi ho pensato che fosse difficile sbagliare numero di telefono avendo ricevuto una mail.

Potete immaginare la mia emozione nellessere in mezzo a tutto ciò: sono sempre stato appassionato di questo genere di film, e il sapere che potrebbero utilizzare qualche mia foto per la promozione di tutto ciò..  se non è lAmerica questa, di cosa parliamo?

 

Esatto, Matteo, di cosa parliamo? Parliamo del fatto che il 27 novembre 2018, su un inserto del Corriere della Sera, in prima pagina appare proprio Matteo Marchi, il ragazzo che “da piccolo voleva fotografare i giganti”.

Parliamo di un sognatore  capace di usare l’ironia quando racconta dei sacrifici e delle rinunce che ha fatto e farà ancora per poter inseguire ancora il suo sogno. Un sogno che sta pian piano concretizzando e che gli auguriamo con tutto il cuore di realizzare continuando a guardare verso il cielo, perché sarà in quella direzione che la palla entrerà nel canestro giusto.

 


 

“Sono partito per gli Usa inseguendo un sogno, per anni ho stretto i denti, ma non ho mai smesso di crederci” – oggi fotografo dei New York Knicks.

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Articolo: Martina Padovan 
Foto: Matteo Marchi

Martina Padovan

Contributor - Photographer

Parola d’ordine: emozioni. Le sue fotografie non sono pure e semplici immagini. Sono mondi, storie, status e culture raccontate attraverso l’obiettivo.