Marcella Manni, fondatrice e direttrice di Metronom, realizza progetti di ricerca sulla cultura visiva.
Lo fa attraverso la produzione di mostre, incontri e progetti dedicati all’esperienza artistica della giovane generazione. Per noi di The Creative Brothers ha voluto condividere una sua riflessione sullo stato di salute dell’arte e della fotografia contemporanea.
Come si può circoscrivere la ricerca nell’ambito della fotografia contemporanea in Italia? Questa la domanda che mi sono – lungamente – posta nell’accogliere l’invito a scrivere sull’argomento per The Creative Brothers. Si può, cioè, parlare di giovane fotografia italiana? O, più in generale, di nuova arte (e fotografia) italiana? Diciamo che la tentazione pare irresistibile: tra musei, festival, gallerie o libri è un fiorire di mostre, premi, ricerche che mirano e perseguono questo obiettivo.
L’intento è assolutamente apprezzabile, ovviamente, quello che lascia perplessi è se questo sia davvero un obiettivo o se si risolva in un’attività dai limiti autoreferenziali. Bene che gli artisti italiani, ancora di più quelli giovani, abbiano occasioni e opportunità di misurarsi con progetti impegnativi e avere occasione di lavorare, fuori dal proprio studio (se ce l’hanno) o dalle scuole; meno bene che questo, raramente, porti al passo successivo, cioè sostenere questo tipo di esperienza al di fuori dei confini, come è a tutt’oggi evidente.
Gli artisti hanno attualmente molte occasioni di accesso a contesti di confronto e condivisione extranazionali tra pari, e a una pratica che sempre più spesso si può definire fluida. Credo sia quindi poco interessante, in questo senso, prendere il dato geografico come discriminante per una riflessione sull’arte e la fotografia. Ma da qualche parte si deve pure iniziare e allora mi sembra calzante prendere a prestito, come traccia sottesa alla mia incursione, il titolo di un progetto dell’artista giapponese Taisuke Koyama, Waves and particles, per provare a individuare alcune linee e percorsi: le onde, i contesti che contaminano e spostano le particelle, le esperienze di ricerca dei singoli, sempre più personali e meno classificabili in termini di comunanza di pratiche e di intenti, trovo siano metafore adeguate per alcuni incisivi confronti.
E inizierei proprio da Taisuke Koyama (Tokyo, 1978): onde e particelle, la luce è fatta di questo, e attraverso la luce si mette in pratica un processo assolutamente contemporaneo di scrittura. I suoi Lightfield sono il raggiungimento di un obiettivo, l’astrazione in fotografia, che non prende però avvio da una immagine esistente, portata all’astratto attraverso interventi e manipolazioni, ma dal processo stesso di utilizzo e registrazione della luce attraverso l’utilizzo di scanner, con il quale interpreta il processo fotografico e artistico per forzarne i limiti tecnici oltre decisamente a quelli concettuali.
«La luce è un’onda elettromagnetica, e parafrasando un linguaggio scientifico, può dare origine a interferenze costruttive». Marcella Manni
Se Koyama ci riporta a una indagine che tende agli elementi primari in una sorta di unità di esito formale, scomporre e dividere la rappresentazione è il punto di vista di Fabrizio Bellomo (Bari, 1982): «oggi non è possibile parlare praticamente di nulla senza parlare di numeri» dichiara. La serie “Il copista di pixel” che realizza dal 2015 come progetto aperto e tuttora in corso, è una installazione che comprende tanti tasselli, ognuno a sua volta composto e scomposto in tanti quadrati che cercano di ricostruire l’immagine originale a partire dalla decodifica dei colori in un sistema modulare. Fabrizio Bellomo ha scaricato dal web dei ritratti fotografici sotto forma di immagini digitali per poi riportare sul foglio a quadretti, pixel per pixel e quindi quadretto per quadretto, i valori numerici ricavati tramite Photoshop; l’artista ritorna copista amanuense e agisce come una ‘macchina’, in una azione ai limiti del performativo.
La luce è un’onda elettromagnetica, e parafrasando un linguaggio scientifico, può dare origine a interferenze costruttive. Mark Dorf (Laconia, NH, 1988) con la serie Transposition riscrive la fotografia di paesaggio attraverso l’utilizzo della scultura e dei media digitali, insieme alla fotografia: partendo dall’assunto che non si può più indagare un paesaggio che non sia stato intaccato dall’uomo, Dorf vede e interpreta la fisicità della natura e l’elemento costruito dell’ambiente in modo olistico, in cui ogni elemento è legato e si influenza a vicenda. In Transposition elementi vitali come la luce, le piante sono deliberatamente accostati a strumenti base di Photoshop come il ‘timbro clone’ o il ‘pennello’, in un certo senso riscrivendo i canoni della rappresentazione del paesaggio nell’era dell’antropocene.
Come Dorf, Martina della Valle (Firenze, 1981) analizza una visione della natura a partire dalle tracce dell’intervento dell’uomo nel paesaggio: One flower, One leaf è una serie di opere e un progetto di ricerca che parte dalle aree periferiche di centri urbani, attraverso la combinazione della ricerca sul campo e della pratica dell’ikebana. Con un progetto artistico che coinvolge attivamente i partecipanti nel percorrere a piedi l’area da studiare e raccogliere elementi di verde spontaneo, Martina della Valle realizza a posteriori un archivio aperto di still-life realizzati in studio che, a seconda dell’ambiente urbano e della stagione, restituiscono uno specifico ritratto dei luoghi dell’intervento, attraverso un processo di decontestualizzazione.
Per quanto ‘parcellizzati’ e concentrati ognuno nella propria ricerca e nel proprio percorso, per quanto non si conoscano e non abbiano avuto occasioni di confronto, Koyama e Bellomo da un lato e Mark Dorf e Martina della Valle dall’altro approcciano temi che hanno elementi di tangenza se non comuni, che sono in grado di generare delle ‘onde’ di interesse, onde piuttosto che nodi, cioè terreni di riflessione critica fluidi e dai contorni non definibili e contenibili. La pratica aperta a diversi mezzi espressivi, l’interesse per l’ambito di ricerca scientifica e il dato tecnologico, l’attenzione e il perseguimento formale di un esito estetico, sono alcuni dei tratti comuni. Tornando alla richiesta di panoramica iniziale, e cioè passando dal particolare al generale, questi tratti comuni pur in un contesto fluido salvano forse da una lettura dell’arte contemporanea come un “eccesso di gusto”, dall’uniformità del pluralismo e dal fraintendimento tra il concetto di nuovo e di diverso.
Il contesto artistico stesso, citando Boris Groyz, cambia costantemente in modo incontrollabile, impensabile o totalmente imprevedibile e proprio perché il destino materiale dell’arte è irriducibile, la storia dell’arte dev’essere sempre riconsiderata e riscritta da capo: forse è questo il terreno in cui waves and particles possono trovare una sintesi leggibile.
Articolo: Marcella Manni Shooting fotografico: Adriano Mujelli
Contributi fotografici: Metronom gallery