Lorenzo Esposito Fornasari aka LEF: il rock non è affatto morto

Lorenzo Esposito Fornasari - LEF profilo

Lorenzo Esposito Fornasari, in arte LEF, è un cantante, produttore e compositore: mille e una vita in costante fuga da qualsiasi inquadramento.

Il 18 maggio 2017, quando è mancato Chris Cornell, il mio primo pensiero è andato a una persona che non vedevo da più di vent’anni. Espo – perché è così che l’ho sempre chiamato, ed è così che per sempre lo chiamerò – era l’amico con cui avrei voluto parlare per esorcizzare quella voragine che ti inghiotte ogni volta che sopravviene un lutto. Espo avrebbe capito, nonostante nessuno di noi avesse mai conosciuto personalmente Chris Cornell. Le ore trascorse ad ascoltare le canzoni dei Soundgarden l’avevano avvicinato inesorabilmente alle nostre vite, e in quella calda giornata, tramite un banale messaggio su Facebook, ho saputo che lo sconforto e la malinconia provati erano comuni.

Lorenzo Esposito Fornasari – in arte LEF – è stato un mio compagno di liceo. Erano gli anni ’90, era Bologna, erano concerti d’istituto dove lui cantava i Pearl Jam, i Soundgarden e i Temple Of The Dog, con quella voce che, se Eddie Vedder fosse stato presente, gli avrebbe stretto la mano. «Devo tutto a mio fratello: ogni cosa che ho ascoltato da adolescente, l’ho ascoltata grazie a lui. Gli rubavo le cassette, ma lui me le faceva trovare affinché le rubassi.

E la musica mi è entrata dentro non tanto per via dei testi – ai tempi ero un ragazzino e non sapevo bene l’inglese, l’ho imparato dopo – ma perché era una botta nello stomaco, uno schiaffo in faccia che arrivava ogni volta che sentivo certi pezzi. Lì ho capito che volevo fare il cantante. Non per stare al centro dell’attenzione, ma per far sì che la mia voce trasmettesse quelle stesse sensazioni. Chris Cornell, Eddie Vedder, Layne Staley, Kurt Cobain, mi hanno fatto capire che la voce era lo strumento a cui mi volevo dedicare».

«Devo tutto a mio fratello: ogni cosa che ho ascoltato da adolescente, l’ho ascoltata grazie a lui». Lorenzo Esposito Fornasari, LEF.

 

Ci siamo ritrovati nella nostra città natale un po’ per caso, dopo esserci rincorsi virtualmente via social, mentre lui componeva quel puzzle che sarebbe diventata la sua carriera. E nonostante la lontananza, non ho mai nutrito dubbi sul fatto che ne avrebbe costruita una. «Ho fatto tantissime cose e la musica è stata marginale finché non ho avuto vent’anni. Avevo le mie band, ma non era un ‘lavoro’, poi – appunto a vent’anni – mi si è incendiata casa, e quest’evento è stato una sorta di tabula rasa da cui è partita la mia nuova vita. Nel giro di alcuni mesi ho cominciato a lavorare con Giovanni Lindo Ferretti; a conoscere un sacco di gente – Eraldo Bernocchi in primis, un fratello da un punto di vista personale nonché la figura con cui collaboro da più di dieci anni – e a intraprendere un percorso inedito e inatteso».

L’incontro con Ferretti, come spesso accade, non era stato affatto pianificato: «Aveva selezionato una dozzina di ragazzi a Bologna per creare una ‘bottega medievale’ di comunicazione. Non era necessario essere un musicista per prendere parte al progetto: io ero tra questi, Giovanni ha scoperto che suonavo e mi ha portato subito sul palco insieme a lui. La nostra collaborazione è durata a lungo, ma è stato Eraldo Bernocchi, divenuto il mio socio principale, a introdurmi al mondo che più mi interessava, ossia quello all’estero».

Chiacchieriamo davanti a un bicchiere di vino in via Santo Stefano, dopo essere stati al suo studio di registrazione vicino alla Dozza – in una situazione un po’ bucolica alla Exile on Main St. – e in giro per il Pratello, dove abbiamo incontrato Carmelo Pipitone, chitarrista deiMarta sui Tubi e della band che hanno in comune, gli O.R.k.. La notizia è fresca fresca: Spotify ha incluso Kneel to Nothing, nuova canzone tratta dall’imminente terzo album Ramagehead, nella playlist ‘Progressive metal’. «Ma noi non siamo una band progressive», sbotta Carmelo. E come vi autodefinite, allora? «Post-grunge, post-rock, post-tutto», replica senza esitazione Espo. Se a molti potrebbe apparire rassicurante, per lui venire incasellato in un genere è una costrizione contro la quale ha lottato sin dagli esordi. «I tantissimi concerti insieme a Giovanni Lindo Ferretti mi hanno completamente catapultato nel mondo della musica, ma tale collaborazione alla lunga si è trasformata in una specie di fardello, perché tantissima gente che prima suonava con me non riusciva a comprendere appieno la figura di Ferretti, e lavorare insieme a lui in Italia è diventato sempre più ‘scomodo’. Venivo visto come uno che ormai giocava nella major league, molto legato alla sua figura e dunque guardato con diffidenza da parte di chi preferiva identificarsi in un genere specifico, che all’epoca era l’indie/alternativo. A me è sempre piaciuto collaborare con tanti musicisti diversi, ma mi sono reso conto che farlo in Italia è difficile: le persone tendono a etichettarti, e quando partecipi a un progetto diverso e poco accomunabile al tuo percorso artistico, ciò è vissuto come un tradimento, come un qualcosa di inaccettabile».

 

«I tantissimi concerti insieme a Giovanni Lindo Ferretti mi hanno completamente catapultato nel mondo della musica, ma tale collaborazione alla lunga si è trasformata in una specie di fardello». Lorenzo Esposito Fornasari, LEF

 

Io, che da poco avevo divorato la biografia di Johnny Marr – lo ammetto, gli Smiths sono una religione che implica costante venerazione – non riesco a non notare il parallelismo. Anche Marr aveva sperimentato quanti più generi e band possibili, spaziando dagli Smiths ai New Order, passando per i Pretenders, i Modest Mouse, i Cribs, i Pet Shop Boys, John Frusciante, Noel Gallagher, Kirsty MacColl. Nessuno si è mai azzardato ad accusarlo d’incoerenza o schizofrenia musicale, anzi. L’Italia però, non è il Regno Unito. «All’estero ho creato il mio percorso collaborando con tanti musicisti e personalità del mondo musicale, che venivano anche da diversi ambienti, perché non mi sono mai voluto fermare soltanto al rock o a un genere in particolare. Piuttosto, preferivo conoscere e sperimentare vie differenti e ho avuto la fortuna di poterlo fare. In Italia si tende a privilegiare una strada prestabilita e forse più sicura: se riesci a fare un disco indie che ottiene un discreto successo presso la sfera underground, sarai propenso a coltivare il tuo orticello e a vedere ogni contaminazione esterna come un potenziale pericolo. Il problema, qui da noi, è che se spazi troppo con le collaborazioni il pubblico non sembra in grado di inquadrarti e di capire chi sei. Quindi paradossalmente quello che ai miei occhi costituisce una dote, si trasforma in un’arma a doppio taglio».

Nel 2005, galeotto fu l’album registrato con Eraldo Bernocchi e Raiz degli Almamegretta, Unisono. «Con noi c’era pure questo produttore americano, Bill Laswell – che è un dio, uno che ha lavorato con Iggy Pop, Santana, Nine Inch Nails. I dieci giorni passati con lui mi hanno dato più stimoli di quanti ne avessi ricevuti negli ultimi dieci anni: ho avuto l’opportunità di conoscere persone, che a loro volta fanno cose con altre persone, che quando comprendono il tuo potenziale si buttano e ti coinvolgono nei loro progetti senza pensarci due volte».

Lorenzo perfeziona l’inglese, e lo sposa come lingua per uscire dal mercato italiano: «Se canti in inglese e sei italiano, nell’80% dei casi il tuo inglese fa schifo: in Italia non avrai riscontro perché comunque il pubblico e la casa discografica vogliono che canti in italiano; all’estero da un punto di vista musicale ti considererebbero di più, ma cadi sulla pronuncia. È un gatto che si morde la coda». Chi desidera fare musica all’estero, a suo parere, la deve fare dall’estero: «Il mio sogno è sempre stato varcare i confini nazionali, e lavorando con diversi professionisti a livello internazionale ci sono riuscito. Poi capita che la stampa estera scriva di me o faccia recensioni parlando di LEF raccontandomi correttamente, mentre la stampa italiana riporta in maniera errata il mio cognome. Delle due, ho preferito produrre musicisti che facevano dischi in italiano, come Carmelo Pipitone: è il suo primo album solista, e per me è stato un modo di sperimentare qualcosa in italiano… Dove però la voce non la mettevo io. È bello constatare che c’è ancora uno spazio – per quanto ristretto – per robe belle, interessanti, che non siano mere fotocopie e che riescano ad avere un certo seguito».

Il tema del ‘già sentito’ ritorna spesso nella nostra conversazione. E se superficialmente potrebbe apparire un problema imputabile alle case discografiche, in realtà il discorso è più ampio e complesso: «Le major una volta erano potenti, oggi sono dei dinosauri in via d’estinzione. Le etichette un tempo indipendenti che dovevano in teoria rappresentare l’underground, in realtà propinavano un ‘pop b’. L’approccio era sostanzialmente lo stesso, con la sola differenza che le major erano maggiormente esplicite e spudorate: il loro intento era fare soldi. Lato indie, ci si poneva come la label che avrebbe scoperto il musicista tal del tali, tirandolo fuori dalle fogne ed elevandolo al ruolo di artista. Però i meccanismi non si discostavano così tanto da quelli delle antagoniste. Le etichette hanno avuto un ruolo abbastanza importante in passato, che ora non rivestono quasi più. Ciò che secondo me conta adesso è il fattore culturale: un certo gusto musicale e artistico va a braccetto col particolare momento sociale in cui siamo calati e da cui non possiamo prescindere. Non è possibile considerare la musica senza il contesto: tu e io siamo stati fortunati, ma se provi a leggere l’attuale situazione politica e culturale in Italia attraverso la musica in circolazione… Beh, non ti stupisci poi così tanto. Pochissimi hanno una loro essenza e una loro ragion d’essere, tutto il resto sono copie. Spesso copie di copie».

Per sfuggire a un simile meccanismo, nel 2015 fonda il suo gruppo principale, gli O.R.k.: «Avevo già suonato con Colin Edwin, bassista dei Porcupine Tree, e con il batterista dei King Crimson, Pat Mastelotto. Visto che volevo una mia band rock da molto tempo per tornare a concentrarmi sul mio primo amore, ho pensato che loro fossero le persone giuste – insieme a Carmelo Pipitone dei Marta sui Tubi alla chitarra. Abbiamo preso a buttare giù i nostri pezzi, e nel giro di tre quattro mesi avevamo il nostro primo disco, Inflamed Rides. C’è stato un tour in Europa, un tour in Sud America e tornati in Italia abbiamo subito registrato il secondo album (Soul of An Octopus, pubblicato nel 2017). Dopo due tour europei ci siamo messi al lavoro sul terzo, che uscirà il 22 febbraio».

Ed è qui che arriva la svolta, grazie a una vecchia conoscenza: «lo scorso giugno ero a New York, mi sono visto con Bill Laswell e durante la nostra chiacchierata mi ha detto di aver passato un disco fatto insieme al cantante dei System Of A Down, Serj Tankian. “Avete molte cose in comune, vedrai che gli piacerà”. Io non ci ho dato troppo peso – figurati, con tutto quello che gli passeranno a destra e a sinistra – ma in agosto, in occasione di una data degli O.R.k. in Sicilia, mi arriva una mail da Laswell. Serj Tankian è rimasto folgorato dalla mia voce e vuole assolutamente mettersi in contatto con me: ho riletto la mail almeno cento volte con un sorriso ebete stampato in faccia, non potevo crederci… Bill poi ha scritto a entrambi, e dopo neanche due minuti Serj ha risposto con un entusiasmo e un trasporto indescrivibili. Si era andato a studiare il mio sito, i miei progetti, e il fatto che uno come lui – che ha vinto l’ira di Dio di premi e che ha contribuito a scrivere la storia della musica – si rapportasse a me con un’umiltà e uno slancio pazzeschi la dice lunga sul differente approccio che vige all’estero. Gli ho fatto ascoltare l’album che stavamo registrando, gli è piaciuto particolarmente un pezzo (Black Blooms) e allora abbiamo deciso di duettare».


Sebbene le parentesi piacevoli siano parecchie, «fare il musicista è una lotta continua: ti devi scordare che sia solo suonare e comporre, quello è un 5% del tuo tempo quotidiano. Il resto sono mail, PR, far quadrare i budget per i videoclip… Cose che hanno poco a che fare con la musica pura e che sono solo sbattimenti». Sarà, ma lui intanto, zitto zitto riesce pure a diplomarsi al conservatorio «con 110 e lode come baritono pucciniano» – scherza, ma nemmeno troppo. «Ho impiegato moltissimo tempo, ma volevo arrivare fino in fondo e mi è servito. Pat, Colin e gli altri mi prendono sempre in giro perché quando andiamo in tour per lunghi periodi, prima di ogni concerto devo fare il riscaldamento lirico per rimettermi a posto. Immaginati la scena: nel backstage di un gruppo rock, dove tutti dovrebbero incarnare quello stereotipo sex, drugs & rock’n’roll, ci sono io che canto Puccini e Verdi… Sono diventato un po’ un fenomeno da baraccone».

In cantiere ci sono la colonna sonora di un film scritta a quattro mani con Serj Tankian, un tour di due mesi con gli O.R.k. che toccherà le principali città europee (con una manciata di date in Italia) e da aprile un altro tour con Carmelo Pipitone in Italia. Per Espo il live conserva un ruolo catartico, vuoi vagamente primitivo: «Il concerto è l’unico modo, il più sincero, per capire chi e cosa si è oggi in musica. La triste verità è che adesso si è più interessati al personaggio rispetto che all’effettiva bravura di un gruppo o di un musicista dal vivo: si desidera partecipare a eventi di massa, indipendentemente dal fatto che chi suona riesca a trasmettere qualcosa».

 

«Il concerto è l’unico modo, il più sincero, per capire chi e cosa si è oggi in musica». Lorenzo Esposito Fornasari aka LEF

 

Lui, che oggi si destreggia tra il suo gruppo, le sue varie collaborazioni e la scrittura di colonne sonore per cinema, pubblicità e performance artistiche, mantiene una visione romantica riguardo alla caparbietà necessaria per ritagliarsi la propria nicchia nel panorama musicale odierno. «Se hai delle capacità e ci credi, qualsiasi cosa è possibile. Io ci ho sempre creduto, anche quando la musica sembrava l’ipotesi più improbabile, e ora mi ritrovo a suonare con persone di cui osannavo i dischi in macchina con gli amici da ragazzino. È che a volte per codardia o pigrizia si getta la spugna, anche se si ha talento. Bisogna possedere un notevole spirito d’avventura per tuffarsi in un percorso artistico: occorre abbracciare la sfida e avere dentro di sé il fuoco. Altrimenti non si va da nessuna parte».

Ci salutiamo che ormai è sera, con la promessa di non perderci di vista come accaduto in passato. È strano: sebbene non ripeterei gli anni del liceo nemmeno sotto tortura, determinate persone e il ricordo di alcuni momenti sono capaci di gettarmi addosso una maledetta nostalgia canaglia. Il grunge ci aveva travolti, e a distanza di venti e passa anni quel sentimento è ancora lì, nitido e potente come non mai. Sì, in quella calda giornata di maggio avrei dovuto chiamare Espo. Forse, parlando con lui, mi sarei sentita meno sola.

 


Articolo: Marianna Tognini   Shooting fotografico: Beatrice Cassarini