Ivano Porpora, Scrittore: nudo come sempre.

Ivano Porpora, scrittore e insegnante di scrittura, in questa intervista ci ha spalancato le porte del suo pensiero sul potere (anzi, i numerosi poteri) della scrittura.

Ivano Porpora è un uomo alto, robusto, capace di abbracci poderosi. La sua forte fisicità non è in contrasto con la delicatezza della sua anima e la profonda e sottile intelligenza, ma è un tutt’uno che si snoda in modo armonioso; così come la sua scrittura. Ivano Porpora è in grado di esporre parti di sé fatte di carne e sangue narrandole con parole potenti, ma anche di regalarci pensieri lievi, sussurrati a mezza voce. È tornato in libreria con il nuovo romanzo “Nudi come siamo stati“, edito da Marsilio, e ci siamo incontrati in occasione di una sua presentazione, davanti a un aperitivo.

Credo che la necessità di narrare sia una caratteristica peculiare dell’individuo, come l’altezza o il colore degli occhi, e che quindi si nasca narratori e che poi scrittori si possa diventare, che per me sono cose diverse. Concordi con questa mia affermazione?

«Tutti quanti abbiamo bisogno di narrare anche perché nel narrare non soltanto raccontiamo agli altri, ma anche a noi stessi. Attraverso la parola o il segno, l’arte in generale, raccontiamo con ordine qualcosa che dentro di noi è disordinato. Pensiamo a quando formuliamo un discorso tra noi: nel cinema può venire rappresentato attraverso un monologo, mentre in realtà è una quantità di flash, di immagini ferme, di immagini in movimento, di parole che si sovrappongono o voci che si sovrappongono e che vanno a compensarsi una con l’altra; in questo modo non sarebbe realizzabile.

L’ordine ci aiuta a capire, a decodificare quello che stiamo pensando e non sappiamo di pensare, quindi la necessità di narrare è necessità di narrarci e raccontarci in quel periodo storico, in quel momento e in quel luogo. Scrivere è una necessità che non tutti hanno e io, come scrittore, faccio fatica a comprendere questo. Credo, in qualità anche di insegnante di scrittura, che la scrittura possa essere appresa, che se ne possano apprendere le norme di buona educazione. Quando si utilizzano una serie di violazioni di regole con la scusa di sacrificare il tutto alla velocità, al “ci siamo comunque capiti” (ad esempio in chat privata il pò al posto di po’, il sì non accentato) in quel momento si sta sottraendo una quantità di norme di buona educazione. Scrivere è conformarsi a una serie di regole e poi, grazie a quelle regole, esprimere la propria creatività».

Hai una scuola di scrittura “La Nottola di Minerva” e tieni molti corsi in tutta Italia. Cosa significa per te insegnare a scrivere ad altri e quanto, di questa attività, riesci a trasferire nei tuoi libri? Ce n’è traccia?

«Sì, anche dal punto di vista immaginativo. Quando insegni scrittura a una persona devi evitare che assuma il tuo modo di raccontare, perché il suo modo di pensare è unico e degno; quindi insegnare scrittura è innanzitutto concedere dignità alle persone. I corsi di scrittura che tengo non sono corsi di autoaiuto, ma mi sono reso conto negli anni che sapere che la propria voce è già di per sé qualcosa di originale e che può essere solo gestita meglio risulta come strumento di liberazione che produce un’esplosione dell’immaginario. Io considero me stesso non tanto come una persona che inserisce elementi d’immaginario, ma come una persona che toglie freni; eliminati questi freni nasce il mondo perché il mondo, queste persone, ce l’hanno già dentro. Non è creazione, ma recupero. Ovviamente io ne traggo tanto vantaggio; persone che hanno letto cose mie scritte quattro o sei o otto anni fa hanno in visto in me diversi passaggi e credo che i passaggi più forti siano accaduti nel momento in cui ho cominciato a insegnare a scrivere. Insegnare a scrivere ti pone di fronte a persone che hanno sì molti problemi, ma che a quei problemi hanno spesso supplito in modo creativo; allo stesso modo io devo considerare i problemi che hanno avuto e trovare dei modi per eludere questi problemi o per ragionare su questi problemi, ma contemporaneamente devo ragionare sul fatto che hanno trovato questo modo creativo e questo modo creativo può essere utile ad altri: compreso me.

«Quando insegni scrittura a una persona devi evitare che assuma il tuo modo di raccontare, perché il suo modo di pensare è unico e degno». IVANO PORPORA.

Quand’è che hai stabilito che eri in grado di saper insegnare?

«Trasferire dei concetti e fare in modo che questi concetti vengano appresi e metabolizzati la considero la cosa più difficile del mondo. Tempo fa ho letto un’intervista del cantante dei Beastie Boys che raccontava di come avesse conosciuto il bassista: “Ho conosciuto Adam Yauch perché avevo bisogno di soldi e ho risposto ad un’inserzione in cui si cercava un insegnante di basso; io non sapevo insegnare il basso ma avevo bisogno di soldi”. Per me è stata la stessa cosa; ho ragionato sul fatto che ci fosse bisogno di qualcuno che insegnasse a scrivere e mi sono detto: “Ho avuto talmente tanti problemi nell’insegnare a me stesso a scrivere, perché ho commesso tutti gli errori possibili, e visto che li ho avuti tutti quanti e li ho gestiti in modo autonomo e penso di aver ottenuto risultati apprezzabili, allora posso fare un corso di scrittura gradevole”. Inizialmente li ho impostati in modo scherzoso. Il primo è stato “Corso di scrittura per aspiranti chef” e traeva origine dalle regole che si desumevano dal noto programma di cucina Masterchef, il secondo “Scrivere di gusto”; pian piano ho tolto le sovrastrutture di scherzo, benché in classe si rida ancora tanto, per andare alle origini della scrittura in modo sempre più consapevole. Ho sperimentato un affidamento progressivo da parte dei miei corsisti alle mie capacità di insegnante di scrittura che ha reso possibile dei veri e propri miracoli.

Quando è stato il momento in cui ti sei reso conto di voler intraprendere la professione di scrittore e quali sono state le motivazioni?

Il 12 maggio 2008: quel giorno ha cambiato tutto. Era diverso tempo che ci meditavo sopra, mi trovavo in un convento a Rosignano Marittimo, provavo una forte insoddisfazione per la vita che stavo conducendo. Facevo un lavoro manageriale e scrivevo cercando di ricavare un po’ di spazio per poterlo fare. Per un cristiano la parola “missione” ha un significato preciso. Ho cominciato a dirmi che se aveva un senso essere cristiano nel mondo non potevo permettermi di continuare a scrivere a metà tempo, dovevo seguire quella che era la mia missione e fare in modo che la mia vita fosse autenticamente la cosa più bella che io mi potessi augurare. Lasciai il lavoro, chiesi alla mia compagna di sposarmi. Non avevo nessun contratto e nessuna idea di romanzo, solo racconti sparsi; “Ma questa è la mia strada e la porto fino in fondo”, mi dicevo. Avevo vinto un concorso letterario, il presidente della giuria era Giulio Mozzi che mi propose a Einaudi e nel 2012 pubblicai il mio primo romanzo, “La conservazione metodica del dolore“.

Ufficialmente, quindi, nasci come scrittore nel 2012. Ne La conservazione il personaggio principale, Benito, dopo aver perduto i ricordi di almeno un decennio, attraverso una serie di flashback recupera una memoria anche molto dolorosa. Memoria e sofferenza fanno parte dei tuoi motori narrativi?

Il romanzo parla dell’epilessia e, soffrendo io della stessa malattia, so cosa vuol dire e ho dovuto fare i conti anche io con la mia memoria. Ho sofferto dello smarrimento dei ricordi prima di un periodo di cinque anni, poi di tre, poi di due, nel senso che pian piano sono andato a recuperare anni di memoria, ma comunque c’è un gap che non si è colmato e fatalmente è un gap per me molto rilevante, perché parla di anni miei all’università, quindi di memorie che hanno a che fare non soltanto con esami universitari passati, quindi con un bagaglio di conoscenze che mi sarebbe piaciuto avere, ma anche con persone; io non mi ricordo di aver avuto a che fare con persone con le quali ho magari scambiato tantissimo, non mi ricordo nemmeno i nomi. Al di là di questo credo che sia un percorso comune a molte persone la distanza che esiste tra la memoria e l’oblio. La volontà che a volte si ha è di mandare a memoria le cose avvalendoci anche della tecnologia, ad esempio la macchina fotografica o il registratore, ma a volte abbiamo addirittura la volontà di non mandare a memoria attraverso supporti per mantenere nella memoria noi; mantenerne traccia mentale per riuscire a viverle senza la distrazione di schermi. Ci sono elementi della nostra esistenza che vorremmo consegnare volontariamente o alla dimenticanza o all’oblio. L’oblio è una dimenticanza forzata, nel mio caso a causa di questo oblio forzoso dovuto alla malattia ho dovuto lavorare sull’emersione completa di tutto quello che avevo perso e poi nella scelta di quello che volevo mandare a memoria e di quello che volevo perdere. A volte in questo percorso ho vissuto sovrapposizioni di ricordi e di figure, esattamente come Benito. Nel romanzo le figure femminili della sua vita a volte si sovrappongono ma non perché abbiano lo stesso valore o siano interscambiabili, ma perché ha la necessità di farle emergere dal fondale.

Hai appena pubblicato il tuo secondo romanzo “Nudi come siamo stati“, un libro di poesie “Parole d’amore che moriranno quando morirai“, una favola per bambini “La vera storia del leone Gedeone” e una raccolta di fiabe per adulti “Fiabe così belle che non immaginerete mai“. Esiste una forma narrativa che senti più vicina?

«La forma narrativa che sento più mia è diversa dalla forma narrativa che sento più facile. Da un punto di vista mentale la forma a me più vicina è il romanzo; procedo per lunghe narrazioni e contemporaneamente. Scrivo diverse storie che si allacciano tra di loro e che hanno a che fare a volte con lo stesso universo narrativo; ad esempio tornano gli stessi personaggi in diversi romanzi e magari un personaggio che compare soltanto per poco all’interno di un romanzo può diventare il protagonista in un altro.

Succede che attraverso narrazioni incrociate i miei personaggi trovino lo spazio giusto per raccontarsi e spiegarsi tra loro. Le poesie, invece, procedono per sottrazione più che per accumulo; in particolare le poesie che scrivo, che sono d’amore, vanno a inserirsi in un panorama abbastanza crudo, che è quello dei romanzi, aggiungendo quel dettaglio di sensibilità che a volte mi manca. Le favole, le fiabe e anche i racconti sono forme narrative complete in sé, sono piccoli rimasugli che non andranno a costruire una storia complessa, ma sono belle così nella loro semplicità e lunghezza limitata».

«Scrivere, così come ogni altra manifestazione artistica compresa la lettura, non è un modo per risolvere problemi ma un modo per presentarseli». IVANO PORPORA.

L’ultima domanda è in relazione a quanto hai detto fino ad ora. La scrittura ci salva dall’oblio, fa ordine nelle nostre esistenze e nella nostra testa e quindi ha una capacità molto grande di dare una forma. Ma è anche una capacità salvifica? La scrittura, di per sé, ci può salvare dall’esistenza, dalla quotidianità, da quello che siamo regalandoci anche identità che non sono le nostre?

«Scrivere non aiuta a uscire, ma aiuta a entrare. Quando hai a che fare realmente con impegno, attenzione, costanza, concentrazione e dedizione con la scrittura – e con dedizione non intendo soltanto la fatica ma la capacità di abbandonarsi totalmente a qualcosa che ci valorizzi -, allora questa ti permette di entrare di più all’interno di te stesso e a contatto con i tuoi problemi. Scrivere, così come ogni altra manifestazione artistica compresa la lettura, non è un modo per risolvere problemi ma un modo per presentarseli. Presentarsi problemi inizialmente ti pone davanti alla tua pochezza perché ti mostra l’incapacità che hai nel risolverli, ma ad un tratto capisci che l’impotenza genera soluzioni. Lo scrittore Alessandro Baricco ha espresso un pensiero, durante un’intervista, che ho trovato molto bello: “Invidio ai cattolici il significato che danno alle ginocchia”, nel senso che per noi le ginocchia sono snodi di articolazioni mentre i credenti cattolici si inginocchiano, dando a questa parte del corpo tutt’altro valore.

Credo che inginocchiarsi sia un’attività che si fa tantissimo nell’azione della scrittura: se tu stai scrivendo in maniera seria – il che non vale solo per i professionisti – e sei piantato lì sul tavolo, “onesto e vigoroso” come diceva Ernest Hemingway, c’è un momento in cui ti inginocchi perché hai la netta sensazione di non poter emergere, sai di non poter sopravvivere ed è in un quel momento che, improvvisamente, su di te cala la grazia».

Articolo: Maddalena Roncoletta   Shooting fotografico: Simone Toson 

Maddalena Roncoletta

Contributor - Writer

Vive a Verona e benedice la scuola dell'obbligo che le ha insegnato a leggere e scrivere, perché, nella vita, non vorrebbe fare altro. Laureata in lettere moderne, ha avuto la fortuna di fare della sua passione per i libri una professione: è bibliotecaria.