Ilaria Puddu, food startupper: il futuro della ristorazione abita qui

Definire Ilaria Puddu non è semplice: imprenditrice, food startupper, creatrice di format gastronomici. Comunque la si racconti, è lei – in coppia con Stefano Saturnino – la mente dietro alcuni dei locali più amati dai milanesi. Che ora non rimarranno più a bocca asciutta.

Aneddoto. Lo scorso inverno, durante un’importante manifestazione a livello food, parlando con una delle organizzatrici mi viene chiesto quale sia secondo me la migliore pizzeria di Milano. Replico senza esitazioni: «Marghe!». Lei annuisce in segno d’approvazione, e aggiunge: «È che lì dietro c’è Ilaria Puddu. E il suo tocco è inconfondibile».

Chi è Ilaria Puddu? Per i non-milanesi o per i disattenti che tendono a minimizzare il boom del cibo – anzi no, si dice food – potrebbe semplicemente sembrare «una che apre ristoranti». Definizione piuttosto sminuente, se si pensa che Ilaria Puddu, classe 1980, nel post Expo (e pure prima) ha preso il vecchio modo di fare ristorazione, l’ha spremuto, buttato e se n’è inventata uno nuovo. Che spopola all’ombra della Madunina.

Di origini sarde, ma nata e cresciuta a Saronno, dopo la laurea allo IULM lavoricchia nella moda e nella comunicazione durando però poco «perché ho sempre avuto la smania di non avere capi e fare le cose per conto mio». Si mette in proprio seguendo alcuni piccoli clienti da sola, finché un amico l’avverte che «una persona che ha tre bar a Milano sta cercando una figura che lo affianchi nel marketing e nella comunicazione. Faccio il colloquio con Stefano Saturnino – ex proprietario di Panini Durini e attualmente mio socio – e inizio a lavorare con lui. Per me il mondo food era una roba completamente sconosciuta, fino ad allora: food significava ‘uscire a mangiare’, punto fine». Entra in Panini Durini nel 2012, all’epoca era stato appena aperto il terzo punto vendita e Stefano la plasma e la forma («dice di aver buttato il sangue con me»), insegnandole l’abc del mestiere: si capiscono, e lei coglie la visione imprenditoriale di lui. Segue lo sviluppo del brand fino al sedicesimo punto vendita, e mentre lavora gomito a gomito con Stefano entrambi hanno il sentore che di lì a breve ci sarebbe stato il boom della pizza.

«Un giorno mi chiama, dicendomi di aver trovato un pizzaiolo tramite un suo ex socio e di voler sviluppare un format sul mondo pizza. La mattina dopo gli ho chiesto di entrare in società, Stefano ci ha ragionato un attimo e mi ha premiata acconsentendo. Abbiamo aperto la società e il 1’ febbraio 2016 è arrivata Marghe». In un panorama dominato dalle tradizionali pizzerie napoletane, Marghe rappresenta una rottura: «abbiamo subìto delle critiche, per via del locale minimal dal sapore internazionale; dei pizzaioli non convenzionali, tatuati, coi jeans e il cappellino al contrario; del menu che comprendeva solo cinque pizze e dell’impossibilità di prenotare. Poi le cose si sono smarcate e questi sono diventati gli elementi differenzianti di Marghe, che ha aperto la strada ad altri brand che hanno contribuito ad alzare il livello del settore».
Marghe è valsa in un certo senso da stimolo, creando una cultura attorno a uno dei piatti-simbolo della nostra tradizione gastronomica. I milanesi impazziscono: l’idea di gustare un’ottima pizza in un locale che non sembra una pizzeria spopola e Ilaria e Stefano aprono una seconda location in via Plinio. Poi, nel novembre 2016 accade ciò che non dovrebbe mai accadere. Il pizzaiolo di Marghe, Matteo Mevio, muore in un incidente in moto a nemmeno trent’anni: mentre il pubblico si stringe attorno a Ilaria e Stefano, nei circoletti food si fanno scommesse su quanto potrà ancora durare il locale, «perché sai, non riusciranno mica a riprendersi». Ilaria Puddu invece non demorde, e sprona gli allievi di Matteo – spaventatissimi e privati della loro guida – a mantenere alto il nome del proprio maestro continuando a mettere in pratica i suoi insegnamenti, la sua tecnica e il suo approccio. «Quei ragazzi nell’edizione da poco conclusa di Identità Golose erano in una sala insieme a Franco Pepe a parlare di Marghe: hanno passato giorni a ringraziarmi, perché per loro era il sogno di una vita. Bisogna preservare lo stesso prodotto e la stessa qualità chiunque ci sia dentro a lavorare: si tratta di una virtù che dipende principalmente dal management e dal fatto che esistano valori forti e condivisi alla base. È un processo costante, non puoi mollare un centimetro: quando mi chiedono se ho figli, rispondo che ne ho più o meno settanta, tutti adolescenti e che sento tutti i giorni: i miei dipendenti. Se c’è un problema, sono io la mamma a cui fanno riferimento».

«Stefano mi ha consegnato le chiavi e mi ha detto ‘fai tu’». Ilaria Puddu

Dopo Marghe è il turno di Pizzium: «a Stefano era rimasto il pallino di fare una catena, anche perché lui alla luce dell’esperienza in Panini Durini è forte sullo sviluppo retail, e voleva creare un format replicabile su larga scala. Trovo il pizzaiolo – Nanni Arbellini – che aveva da poco lasciato Briscola e nel giro di un mese è nata Pizzium: due anni fa abbiamo aperto il primo locale in via Procaccini, a inizio aprile è arrivato il tredicesimo». Pizzium, posizionata come una catena di qualità su territorio nazionale, è presente a Milano, Roma, Varese, Torino, Serravalle Scrivia, Brescia, Gallarate, Seregno, Como: «chiuderemo a venti punti vendita nel 2019, oggi è considerato il brand che si sta sviluppando più velocemente su suolo nazionale», racconta con una punta di orgoglio.

 

Pasticceria Gelsomina

 

Lungi dal fermarsi, con l’obiettivo di coprire l’universo food a 360° a fine ottobre 2018 apre i battenti la pasticceria Gelsomina, che nel giro di poche settimane diviene il locale più instagrammato di Milano. «Qui una volta c’era un laboratorio di pasticceria di proprietà di Panini Durini, utilizzato per la preparazione di dolci artigianali. Noi l’abbiamo rilevato, Stefano mi ha consegnato le chiavi e mi ha detto ‘fai tu’. Un giorno, durante l’estate, sono entrata, mi sono seduta in mezzo allo sporco e alle macerie, e pian piano ho iniziato a visualizzare il locale. Ho cercato i pezzi di recupero, il legno del bancone, i tavoli e le sedie di fine ‘700, ho preso altri tavoli e sedie da un artigiano di Orvieto, ho disegnato il pavimento e selezionato i piatti nei mercatini vintage». Si chiama Gelsomina perché Ilaria ama i nomi di persona – «ne desideravo uno che ricordasse un po’ una nonna del sud, in generale funzionano molto bene soprattutto nell’ottica di voler andare all’estero» – e perché il gelsomino è il profumo preferito suo e di Stefano.

 

 

«Appena inaugurato c’è stata una vera e propria esplosione a livello social, pure involontaria: sono passate tutte le influencer possibili e immaginabili, si sono trovate bene e poi sono tornate. Sono impazzite pure tante aziende di moda, diverse hanno fatto shooting qui dentro e ad alcune che volevano prendere Gelsomina come location in esclusiva ho detto no: non voglio creare un disservizio a chi viene ogni giorno e magari trova il locale chiuso».
Il concetto è quello (vincente) del ‘pranzo in pasticceria’, con un menu ispirato al Sud Italia: si mangia bene, genuinamente, in uno spazio a dir poco stupendo: «Gelsomina è la mia parte romantica e io l’ho sempre vista come un giardino sognante, in cui si ferma il tempo. Non sembra di essere a Milano, tanto che in molti entrano e chiedono dov’è il giardino».

 

Pizzeria Giolina

A marzo 2019 vede la luce Giolina, focalizzata sulla combo – cara a Ilaria – ‘pizza & cocktail’. «Non esistono pizzerie così in città, ci siamo rifatti a un’atmosfera ‘vecchia Milano’ a livello di interior per creare la sorella ribelle e un po’ dandy di Gelsomina, quella che vive di sera, che ama Tarantino, la letteratura e il whisky.

 

 

È la mia anima più rock & wild, e dentro ci sono tutte le passioni mie e di Stefano: la letteratura, la musica rock e blues, i cocktail, i vini naturali, la pizza. Il pizzaiolo è un ex Marghe, che per un mese non ha dormito per studiare al millimetro l’impasto perfetto». Per il bar, sapendo di essere meno ferrata, coinvolge Flavio Angiolillo del MAG Cafè, un suo carissimo amico che si è innamorato del progetto «e del nostro singolare banco bar, che è senza bancalina e pedana, così da permettere ai clienti di vedere live ogni cosa che fa il barman».

 

 

Entro l’anno poi è prevista Carmelina, «la zia di Giolina e Gelsomina, un ristorantino che si ispira molto a Capri e alla costiera amalfitana, un bistrot di cucina partenopea. Dopo di lei un’altra novità, questa volta con focus sui tacos con un taglio cool, non tanto Messico quanto bassa California».
Per Ilaria Puddu, che corre veloce come uno Shinkansen, il futuro del food risiede in ciò che lei e Stefano stanno costruendo: «gruppi come il parigino Big Mamma Group, che con uno stile ben preciso aprono una serie di locali tra loro distinti eppure collegati in qualche modo l’uno all’altro, sebbene con nomi e proposte diversi». Non si parla però di ‘catena’: «la catena è un business con le sue dinamiche e il suo approccio; noi invece ci stiamo evolvendo in un gruppo che lavora sul food a 360°, senza per forza dover aprire mille punti vendita di un brand». L’obiettivo? «Sbarcare negli Stati Uniti».
A vederla – minuta, con un viso da bambina, gli occhi vispi e la frangetta – fatichi a immaginare dove trovi la forza per fare l’amministrazione, la contabilità, le risorse umane, i menu, le foto e la comunicazione per tutti questi progetti. Senza contare che, per quanto possiamo illuderci, essere donna e imprenditrice non è affatto una passeggiata di salute. «Nel food retail le donne fanno fatica a farsi rispettare: è ancora un mondo molto maschile e io ho lavorato tantissimo su me stessa per impormi come donna-capo di ragazzi con pochissima esperienza, nonché retaggi e vissuti diversi dal mio. Non esiste una ricetta magica per farsi rispettare, ma hanno visto che se occorre mi sporco le mani, preparo i caffè, dipingo gli zoccolini. Ho dimostrato loro che seguendomi arrivano i risultati: lavoro molto sull’obiettivo, i miei dipendenti hanno sposato il mio modus operandi e ora si sentono al 100% parte di un progetto condiviso. Adesso, sapendo quante cose ho da fare, mi chiamano per sapere se ho bisogno d’aiuto, e il nostro rapporto è diventato quasi più una partnership. Chi è bravo, volenteroso e costante viene fatto crescere, esattamente come Stefano ha fatto crescere me».

«Nel food retail le donne fanno fatica a farsi rispettare: è ancora un mondo molto maschile e io ho lavorato tantissimo su me stessa per impormi come donna-capo». Ilaria Puddu 

Le idee arrivano grazie a lunghe chiacchierate e tantissima ricerca insieme a Stefano, una ricerca volta a capire cosa sta succedendo all’estero, cosa funziona, cosa manca a Milano e cosa potrebbe piacere. Il frutto sono trentasei locali nel giro di sette anni: i Panini Durini (venduti da Stefano a luglio), due Marghe, tredici Pizzium, Gelsomina, Giolina. «Aprire format complessi a distanza di due, tre mesi l’uno dall’altro è massacrante, e la mente si deve per forza dividere: con cinque brand, ognuno con la sua specifica identità, occorre essere capaci di scindere il pensiero». Per Ilaria però, la parte più difficile «consiste nel far combaciare numeri e creatività: un imprenditore deve essere in grado di gestire entrambi gli aspetti contemporaneamente, altrimenti l’azienda non sta in piedi».

Lei da sette anni non fa una vacanza degna di essere chiamata tale: il suo lavoro ormai è diventato quasi una droga «perché voglio sempre migliorarmi, ancor di più adesso che siamo sotto i riflettori. Senza contare che il nostro è un mestiere super adrenalinico. Tutto quello che guadagniamo lo reinvestiamo in nuovi progetti, sia per creare posti di lavoro, sia per far capire ai ragazzi di oggi che il food sarà il settore del futuro, così come la moda lo è stata negli anni ’80».
Ilaria e Stefano hanno compreso prima di altri che nella ristorazione non basta più avere la pizza buona o dolci da svenimento: conta il prodotto, l’esperienza all’interno del locale, l’interior design, la cura dei dettagli, il sorriso di chi ti serve al tavolo. ‘Mangiare bene’ è quindi la somma di molte variabili, dove il cibo rimane sì al centro, ma non più come unico protagonista: «ormai è il food che detta i trend, ma se in pasticceria avessi quattro cafone a servire, guadagnerei la metà».

Le chiedo, forse un po’ ingenuamente, come riesca a fare tutto, e lei mi parla di scelte – non di rinunce – in merito a figli e vita privata: «essere un’imprenditrice con un lavoro simile tende a spaventare gli uomini. Le donne indipendenti li affascinano, poi però preferiscono quella da accudire. Ho locali che aprono alle sette del mattino e chiudono all’una di notte: non riesco ad andare a dormire prima di quel momento». Vorrebbe strutturarsi un minimo, ma si scontra con la difficoltà di incappare in qualcuno come lei da portare a bordo. Stefano l’ha cresciuta insegnandole che il lavoro deve portare un risultato economico e che ciò non può prescindere da un’organizzazione esemplare: mantra ineccepibile, che purtroppo sempre meno persone hanno la volontà di introiettare.
Non perde mai il sorriso Ilaria, nemmeno quando, sul finire della nostra chiacchierata, la spiazzo con un «Se tornassi indietro, faresti qualcosa diversamente?». No, rifarebbe tutto uguale, errori e sacrifici compresi. «Quello che vedo negli occhi di un ragazzo che va a parlare a Identità Golose mi ripaga di ogni cosa. Ci siamo posti degli obiettivi molto alti e io sono sempre stata parecchio ambiziosa: non lo faccio per finire sulle copertine dei giornali, la mia è solo passione».
E vedendola da Gelsomina, mentre beviamo un caffè accompagnato da (deliziosi) pasticcini, capisci che Gelsomina stessa, Marghe, Pizzium, Giolina e le prossime aperture sono ciascuna un pezzetto di Ilaria: in un universo popolato da primedonne, lei – che non ama esporsi – comunica per interposta persona. E a quanto pare si tratta di un tipo di conversazioni di cui i milanesi non possono più a fare a meno.


Articolo: Marianna Tognini   Fotografie: Alessandra Lanza