I Gatti Mezzi, Musicians, Stage, Pisa, Italy

«Roba da gatti mezzi, dicevano i nostri padri. La peggior cosa che possa capitare ad un gatto è essere sorpreso da un diluvio in un vicolo di notte o una piena del fiume in città… Due gatti infradiciati scorazzanti in un vicolo notturno alla ricerca di una lisca o di una compagna in calore è l’idea che ci ha affascinato per raccontare una Pisa borghese, globalizzata e tecnologica che si sta dimenticando dei propri vicoli bui e puzzolenti, dei suoni e dei rumori che li animano e dei loro abitanti secchi e spelacchiati che vivono fra un miagolio d’amore e uno di disperazione». I Gatti Mezzi

Francesco Bottai “Checco” (Chitarra, Voce) e Tommaso Novi “Tommi” (Pianoforte, Voce e maestro di Fischio) in arte “I Gatti Mezzi” sono un duo pisano affiatato, divertente e travolgente, gente semplice e al tempo stesso ironica e schietta. Gatti Mezzi-10 Sono due musicisti strepitosi, con cui è stato un piacere passeggiare per i vicoli di Pisa e farsi ammaliare dalle storie che hanno da raccontare. I Gatti Mézzi si prendono in giro, ridono di gusto e poi fanno calare il silenzio quando si esibiscono e il loro pubblico è partecipe, piange, si diverte e alla fine del loro concerto torna a casa appagato da uno spettacolo che incrocia cantautorato di qualità, arrangiamenti raffinati, teatro canzone e perle di saggezza in vernacolo. Al Lumiere a Pisa il 2 aprile per la presentazione del loro ultimo lavoro: “Perché Hanno Sempre Quella Faccia”, fra il loro pubblico c’ero anch’io.

I Gatti Mézzi sono un gruppo attivo dal 2005, numerose esibizioni e collaborazioni (Appino, Bobo Rondelli, Petra Magoni, Bandabardò, Dario Fo, Ascanio Celestini, ecc) premi, una colonna sonora per il film: “Fino a qui tutto bene” e sei album. Insomma, un bel po’ di soddisfazioni.

Chi eravate prima di diventare dei “Gatti Mezzi”? Quando è avvenuto il vostro incontro con la musica?

Tommaso: Ho iniziato a studiare pianoforte da piccolo, grazie a mio padre, che negli anni ’70 era il chitarrista di una band a nome “I Gatti Neri”. Ricordo di essere entrato in casa di amici mano nella mano con lui e di aver visto un organetto della Bontempi acceso, mi ci sono avvicinato e dal nulla ho cominciato a suonare Fra Martino Campanaro. Mio babbo, incuriosito e stupito, mi chiese dove avessi imparato e mi disse: «Se ti piace troviamo un insegnante per imparare a suonare». Ed è stato così che a sei anni e mezzo ho iniziato la mia avventura col pianoforte. Ho cominciato studiando musica classica, poi pianoforte Jazz con Andrea Pellegrini e Mauro Grossi, e successivamente composizione al conservatorio senza però diplomarmi. All’università mi sono iscritto e ho sostenuto un paio di esami solo per saltare il servizio militare, poi ho conosciuto Francesco e ho mollato gli studi. Con I Gatti Mézzi è iniziata la mia carriera da musicista professionista.

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Francesco: Mio padre suonava la chitarra, è stato lui ad insegnarmi i primi accordi. Poi ho preso qualche lezione e per il resto, fatta eccezione per un periodo in cui ho studiato con Gabrio Baldacci, sono sempre stato autodidatta. Nel frattempo mi sono laureato in Storia Contemporanea all’Università di Pisa, ma la vocazione vera è sempre stata la musica.

Come vi siete conosciuti e quando avete dato vita a questo fortunato connubio?

Tommaso: Siamo nati entrambi a Pisa, nella stessa zona, e abbiamo trascorso l’infanzia negli stessi luoghi ma non ci siamo mai incontrati da piccoli. Francesco l’ho conosciuto da ragazzo, suonava ne La Ghenga, un gruppo ska pisano del quale ero un grande fan. La loro musica era accattivante e travolgente, ed io ero attratto dal fatto che alcune canzoni fossero scritte in Vernacolo, fra tutte: “Cacciucco Blues” un brano che, da bravi pisani, prende bonariamente in giro i nostri fratelli livornesi. Io scrivevo poesie in Vernacolo per puro diletto, perché ho sempre avuto un grande godimento nel sentire parlare mio nonno: quando apriva bocca tutti si ammutolivano e l’ascoltavano in silenzio. Di tanto in tanto leggevo i miei scritti in pubblico e quando mi è stato chiesto di presentarli con un accompagnamento musicale all’Anfiteatro Di San Giuliano Terme, ho pensato a Francesco: chi meglio di lui avrebbe potuto condividere con me questo piacere? Allora l’ho contattato.

 

«Siamo partiti per passione: non c’è stato nessun calcolo, non abbiamo pensato al fatto che potesse funzionare o meno. Abbiamo iniziato quest’avventura, presentato il progetto alla gente, che si è riconosciuta in quello che avevamo da dire».

Gatti Mezzi-12Francesco: Ho ancora oggi in mente la scena: Tommaso ed io seduti ad un tavolino, a sorseggiare un bicchiere di vino, a sentire come suonava il vernacolo accompagnato da queste marcette, valzerini e blues. Ci faceva ridere, ma sentivamo tutto il potenziale di un progetto del genere, ce ne siamo innamorati e da lì abbiamo deciso che dovevamo assolutamente condividere con altra gente quello che stavamo sperimentando noi due. Credere in Tommaso è stato facile, l’idea era bella e originale e musicalmente sapevo quanto fosse valido, avevo stima di lui.

Siamo partiti per passione: non c’è stato nessun calcolo, non abbiamo pensato al fatto che potesse funzionare o meno. Abbiamo iniziato quest’avventura, presentato il progetto alla gente, che si è riconosciuta in quello che avevamo da dire ma soprattutto si è divertita. Durante la prima serata, quella che si può considerare “la serata punto zero”, non riuscivamo a finire i pezzi a causa delle risate fragorose del pubblico.

Avete pubblicato i primi due album in vernacolo autoprodotti, dopodiché avete vinto il Premio Ciampi nel 2007 e poi cos’è successo?

Francesco: Abbiamo iniziato un percorso con Mirco Mencacci, un rinomato montatore del suono del cinema che ha fondato una casa discografica a nome Samworld. È un audiofilo, ci ha fatto comprendere l’importanza del suono. Ai tempi Tommaso ed io cercavamo di fare molta attenzione al suono, in particolare, in quel periodo, ascoltavamo tanto i Buena Vista Social Club, perché ci interessava un tipo di “musica panoramica”, in cui i microfoni siano lontani, disposti in modo tale da avere la percezione, quando ascolti, di essere nella stessa stanza con i musicisti. Mirco è capitato al momento giusto e ci ha consentito di sperimentare mondi nuovi e inesplorati del suono.

Tommaso: L’incontro con Mirco sembra una scena tratta da un film: Francesco ed io, giovani, e quest’omone cieco, con gli occhiali e il sigaro, che dopo un concerto ci dice: «Ragazzi avete voglia di fare un po’ di strada insieme a me? Vi porto a vedere un posto» e ci ha mostrato il suo studio. Era un luogo pieno di strumentazioni che non avevamo mai visto, siamo rimasti a bocca aperta davanti al banco degli anni ‘70 dove era stata registrata Crêuza de mä di Fabrizio De Andrè, ai microfoni valvolari degli anni ‘50 e ad un fantastico Steinway a coda. La sensazione è stata quella di sentirsi parte della storia della musica. Da questo fortunato incontro sono nati due album: “Struscioni” e “Berve fra le berve” scritti interamente in vernacolo.

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A questo punto non posso non chiedervelo: l’ultimo album “Perché Hanno Sempre Quella Faccia”, prodotto da Picicca Dischiè cantato interamente in Italiano. È stata la casa discografica a suggerirvelo?

Francesco: La domanda è legittima, tuttavia è stata una richiesta “viscerale”. Quando abbiamo presentato l’album alla casa discografica ci hanno chiesto: «Ma siete sicuri? È una scelta importante». È stato un parto necessario ed inconscio, un’evoluzione naturale. Come quando ti innamori di una donna, non lo sai perché avviene; anche qui è successo e basta. Ho riscoperto delle potenzialità della lingua italiana che trascuravo, ho sempre avuto l’impressione che per comunicare un concetto semplice l’italiano non ammettesse grandi scorciatoie e non fosse immediato come il vernacolo. Ecco, ho imparato che posso concentrare in due parole quello che voglio dire anche in italiano. Ed ora in questa dimensione mi ci ritrovo perfettamente.

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Tommaso: Il vernacolo ci serviva per comunicare con il pubblico con una certa immediatezza. Le storie che volevamo raccontare erano intrise di vernacolo, non potevamo descrivere i vicoli di Pisa in un’altra maniera, questo modo di parlare era talmente efficacie e diretto che le canzoni andavano scritte così. Ora abbiamo quarant’anni, quello che vogliamo raccontare ha bisogno di un altro linguaggio, e non perché desideriamo che ci capiscano al di fuori della Toscana, questa è una conseguenza logica, ma semplicemente perché, per quello che abbiamo da dire oggi, il vernacolo non è più naturale e appropriato.  L’ultimo è un disco a cui abbiamo voluto bene in tanti, già prima che uscisse. Basti pensare ad Andrea Ciacchini, produttore artistico, che ha passato giorno e notte chiuso in studio, per mesi, con il rischio di scambiare noi con la sua famiglia. Ha sfiorato la pazzia a furia di star dietro al progetto: pensa che ogni tanto, all’alba, ci recapitava dei video di lui che danzava davanti al mixer nel cuore della notte!

«Il vernacolo ci serviva per comunicare con il pubblico con una certa immediatezza. Le storie che volevamo raccontare erano intrise di vernacolo, non potevamo descrivere i vicoli di Pisa in un’altra maniera, questo modo di parlare era talmente efficacie e diretto che le canzoni andavano scritte così».

Nelle vostre canzoni raccontate tanto Pisa e i suoi vicoli, e parlate di “sagome” tipiche della cultura popolare toscana. Da cosa nasce questo interesse?

Gatti Mezzi-18Francesco: Parto da un verso di un brano di Paolo Conte (Gelato al limon) che dice: «E la sensualità delle vite disperate, ecco il dono che ti farò». Le “sagome”, i personaggi grotteschi mi hanno sempre affascinato. Quando vedo la gente che “ciondola” e che va avanti per luoghi comuni rimango ammirato, in quanto credo che nel luogo comune spesso ci siano delle grandissime verità. Nei vicoli di Pisa ho conosciuto delle persone intellettualmente interessantissime, dotate di una carica di verità interiore, una leggerezza e una libertà che molte volte cerco in me stesso ma che non riesco a trovare.

Tommaso: Le nostre famiglie sono semplici, di conseguenza riportare tutto ad una dimensione “di vicoli” è stato un modo per rendere giustizia alle nostre origini e impregnare di verità le nostre canzoni. I vicoli sono parte della mia gioventù; lì ho passato le notti, ho visto l’alba fare capolino, mi sono lavato alle fontane, ho fatto l’amore. Per me Pisa è i suoi vicoli, queste sono cose che mi appartengono.

Al concerto ho visto gente piangere, ridere, ammutolirsi e ballare fino allo sfinimento. Il vostro pubblico vi vuole bene, partecipa alla vostra esibizione. È un po’ come se venissero a sentire cantare degli amici. Nel momento in cui doveste avere più successo e allargare la platea di seguaci, pensate che questo prezioso rapporto con il pubblico rimarrebbe invariato? Avete timore di cambiare?

Francesco: Sono convinto che la relazione che instauriamo con il nostro seguito rimarrà la stessa anche nel caso di una platea più allargata, perché portiamo in scena noi stessi, di conseguenza se ad ascoltarci ci sono cento, mille o diecimila persone, il nostro modo di porci nei loro confronti non cambia, “abbiamo sempre la stessa faccia”, come dice il titolo del nostro ultimo album! Nel contempo, personalmente non sono convinto che le persone coerenti siano persone interessanti. La contraddizione è interessante. Il cambiamento non mi spaventa. Se cambiare significa diventare scontroso e scostante, allora non mi ci ritrovo, ma se cambiare vuol dire prendere una barca e lasciarsi trasportare dal fiume, docile agli eventi, allora va bene. Ma questo non ha nulla a che fare con il rapporto con la gente.

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Tommaso:  L’ultimo disco è frutto di una campagna di crowdfunding, e quello che abbiamo sperimentato è stato incredibile. Avevamo chiesto diecimila euro e siamo arrivati a quindicimila! Senza questo amore diretto, vero e singolare con il pubblico, non esisteremmo. Per via del crowdfunding abbiamo dialogato con ogni singola persona, siamo andati a suonare ai campanelli, abbiamo mandato e-mail personali, abbiamo messo in palio lezioni di fischio, cene a casa e giri in barca e la risposta è stata sconvolgente e commovente. Se un giorno avrò uno yacht non sarò più un gatto mézzo, e magari non farò nemmeno più musica.

I gatti sono indissolubili da questo rapporto diretto con le persone. Finché hai la gente che sente il tuo “puzzo”, il tuo odore, il tuo sudore e la puoi guardare negli occhi c’è magia, lo scalino successivo non ci interessa ora. Ho paura di perdere queste cose.

Avete dei ricordi in particolare legati a qualche fan?

Tommaso: “Soltanto i tuoi baffi”, brano contenuto nell’album “Vestiti Leggeri”, parla della morte di mio padre e racconta un aneddoto un po’ grottesco realmente accaduto. Nel trasferire mio padre in un’altra tomba, mia madre ed io lo abbiamo ritrovato con un calzino.

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Con i I Gatti Mézzi abbiamo suonato questo pezzo a Spilamberto, un paesino vicino Modena, in un locale dove c’erano tre persone: una ci ascoltava e le altre due no. Alla fine del concerto una signora sulla sessantina si è avvicinata e visibilmente commossa mi ha detto: «Come hai fatto? Hai raccontato la storia che è successa a me, chi te l’ha raccontata?». Il mondo è piccolo e la musica rende possibile queste cose.

Ancora oggi anch’io mi chiedo come sia possibile che sia successo anche a lei! Non so se l’avesse inventato o se questa coincidenza fosse reale, fatto sta che dopo una serata in cui nessuno ti ha considerato, una cosa del genere ti riempie il cuore e ti fa pensare che grazie alla musica puoi ritrovarti in situazioni importanti e nel contempo buffe.

Francesco: Grazie a Musiche Metropolitane ci siamo esibiti al di fuori dell’Italia, a Parigi e in Canada. In particolare, al termine di un concerto a Parigi, un ragazzo di Bari mi si è avvicinato e mi ha detto: «La mia ragazza francese si chiama Marina e adora il pezzo “Marina”, ci sente tanto Nino Rota nonostante non capisca la lingua»

 

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Questo mi ha fatto riflettere su come la musica sia un linguaggio talmente trasversale che non abbia nemmeno tutta questa appartenenza, puoi emozionarti per un pezzo di Tom Waits senza capire esattamente di cosa parli.

In Canada abbiamo portato una carica di gioia e coinvolto il pubblico come non ci saremmo mai aspettati! La nostra musica parla da sola, anche senza parole. Durante quel tour abbiamo tradotto le presentazioni dei brani in francese tramite google translate, una traduzione davvero approssimativa e il pubblico ovviamente se ne è accorto, ma si è divertito e ha apprezzato la nostra disponibilità e voglia di comunicare con loro.

Qual è, quindi, il punto di forza dei Gatti Mézzi?

Francesco: La schiettezza, la cura maniacale degli arrangiamenti e dello spettacolo in ogni sua parte sono tutte cose che ci avvicinano al pubblico e ci consentono di trasmettere emozioni e instaurare un rapporto sincero e autentico con le persone. Scherziamo, ma nello stesso tempo facciamo sul serio, senza voler prendere in giro nessuno ma presentando un progetto su cui abbiamo versato il sangue e su cui abbiamo messo cuore e passione.

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Tommaso: Suonare dal vivo trasmette delle vibrazioni che non recepisci ascoltando la musica a casa, la prospettiva cambia. Come Gatti Mézzi abbiamo investito tanto sulla sincerità, a volte anche a costo di sembrare grotteschi e presuntuosi, perché quando metti così a nudo la tua figura si rischia di essere fraintesi e di dare l’impressione di aver costruito il personaggio a tavolino. Ci siamo presentati per come siamo sin dall’inizio e siamo stati ripagati.

Passate moltissimo tempo assieme e vi conoscete da altrettanto. Che tipo di rapporto avete? Vi capita di litigare?

Tommaso: Francesco ed io siamo una coppia artistica, tuttavia ci sono tante similitudini con la coppia matrimoniale. Io credo che Francesco possa essere paragonato all’uomo della coppia e io alla donna, nel senso che lui è molto impulsivo e diretto, se ha qualcosa da dirmi lo fa subito a caldo. Io, al contrario, sono la donna che monta e poi esplode! Abbiamo questa asincronia nel dire le cose che poi porta al litigio.

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Francesco: In effetti litighiamo spessissimo. Per la vita, per un’incompatibilità naturale che possono avere due persone quando stanno tanto tempo insieme e hanno un progetto comune che di base ha emozioni e sentimento. Se a questo aggiungi il fatto che lavoriamo con altri musicisti, dobbiamo coordinarci con il booking, la produzione, l’ufficio stampa, è inevitabile avere conflitti.

Nelle vostre canzoni sono presenti dei ricordi legati alla figura paterna. Oggi siete entrambi genitori: cosa vi piacerebbe dire ai vostri figli?

Tommaso: Io vivo nel terrore che la tenerezza che c’è oggi fra me e mio figlio Furio evolva in qualcosa che non mi piace o, peggio, finisca. Quindi gli ripeto di non odiarmi quando crescerà, perché saremo molto distanti un giorno. Quotidianamente, quasi a voler piantare un semino, anche se non capisce perché ha 5 anni, gli dico: «Mi prometti che saremo così uniti anche quando io sarò vecchio e antipatico e tu non mi sopporterai?» e lui mi guarda, fa un sorriso e dice che mi vuole bene… In realtà non ha capito.

Francesco: A mia figlia Bianca direi che nella vita non bisogna fermarsi mai, si deve guardare il mondo con curiosità. Le persone che io ritengo interessanti sono quelle che hanno una grande passione, la vivono e vanno a fondo nelle cose. Per fare questo occorre essere onesti, prima di tutto con sé stessi e poi con gli altri. Io vorrei, quindi, che mia figlia fosse onesta con sé stessa, che viaggiasse, cercasse di mettersi in gioco anche rischiando, osando, allontanandosi da una vita comoda e superficiale, e che vivesse di passioni.

vernàcolo s. m. e agg. [dal lat. vernacŭlus, agg., «domestico, familiare», der. di verna (v.)]

Parlata caratteristica di un centro o di una zona limitata. Si contrappone a lingua ed è distinto da dialetto, rispetto al quale è più popolare e locale (un po’ come in francese patois si contrappone a langue e si differenzia da dialecte), ed è usato più spesso, per ragioni storiche, con riferimento alla situazione toscana o dell’Italia centrale: i v. toscani, umbri, laziali; il teatro in v. fiorentino; una ninna nanna in v. senese; «noi si va» per «noi andiamo» è un uso tipico del v. toscano.

Articolo: Maria Pia Catalani  Contributi fotografici: Paolo Marchetti

 

Maria Pia Catalani

Contributor - Writer

Chimico dall'anima soul, si divide fra il mondo che ruota attorno alla tavola periodica di Mendeleev e quello delle sette note. Assume quotidianamente più volte al giorno razioni massicce di musica; tutta, quella bella, e di prima qualità, ovviamente.