Nel suo reportage, Claudia Ioan ci fa scoprire il mondo difficile degli asfaltatori (o stradini) del Ladakh, noto anche come piccolo Tibet. Uomini che lavorano quasi senza ossigeno e con una fortissima escursione termica in un paesaggio lunare che lascia senza parole.
Il lavoro nobilita l’uomo. Il lavoro è dignità. Senza alcuni lavori, non avremmo mai potuto attraversare I continenti o raggiungere luoghi e persone a noi cari. In quei paesi che potremmo chiamare “civilizzati” come il nostro, ci sono purtroppo lavori di serie A, e lavori di serie B; il vero guaio è che non vengono definiti in base alla complessità, o al sacrificio che richiedono o all’utilità, ma troppo spesso vengono catalogati in base al reddito che portano.
Chiunque abbia percorso nella sua vita un’autostrada italiana ha avuto modo di ringraziare mentalmente gli addetti ai lavori della carreggiata che, estate e inverno, caldo o freddo, giorno o notte, si incontrano lungo il viaggio. Ma non so quanti di noi abbiano mai spostato questo pensiero fino a quei luoghi dove un lavoro già difficile in condizioni non estreme, lo fanno diventare qualcosa di pericoloso, non soltanto impegnativo.
Gli asfaltatori in realtà sono connessi al viaggio e alle carovane, così come vengono mostrate nel favoloso film HIMALAYA – L’infanzia di un capo, di Éric Valli: un film straordinario, un affresco di una cultura, quella tibetana, rimasta viva e libera solo in Ladakh, ormai da decenni. Claudia Ioan, in questo progetto, ci mostra uno di quei luoghi, e ci chiede di riflettere su due diversi aspetti della situazione: il primo, quello dei lavoratori appunto, e il secondo quello dell’ambiente, che non può far altro che subire passivamente, tanto quanto gli stessi uomini costretti a modificarlo così rudemente.
«Un paesaggio quasi lunare a riempire lo sguardo, illimitato: questo è il Ladakh, una mappa geologica aperta come un libro. Ma anche confine con il cielo tra i più elevati del mondo. Carrozzabile. Il che rende questa terra unica». Claudia Ioan
«Il Ladakh (dal Tibetano La-dvags, Paese degli Alti Valichi), noto anche come Piccolo Tibet, rappresenta una meta che ho maturato nel corso di lunghe letture e studi. Sono rimasta folgorata dalla storia di questo angolo di pianeta così remoto, che sembra un gioco di scatole cinesi: è un ex-regno buddhista, incastonato in una regione musulmana (il Jammu Kashmir), a sua volta all’interno di un macro-stato induista. Fino agli anni ’60 del ‘900 è stato il crocevia di carovane, merci, lingue, cucine, religioni e culture: un luogo di scambio, di incontro, di contaminazione. È anche isola – felice, rispetto a turbolenti vicini quali il Kashmir – di convivenza tra religioni, tra buddhisti e musulmani. Qui si è potuta preservare intatta, fino ad oggi, l’unica cultura tibetana libera al mondo, in una valle remota che ben potrebbe aver fatto da modello a Orizzonte perduto di James Hilton.
Luogo dai grandi estremi climatici, offre un paesaggio aspro eppure affascinante: un deserto roccioso di altissima quota, imprevedibile nelle sue cromìe cangianti, interrotto bruscamente da piccole esplosioni di verde nelle piccole valli e lungo i fiumi Indo e Zanskar, punteggiato di laghi salati dai colori inimmaginabili e cime a perdita d’occhio e di respiro: è il tetto del mondo. Un paesaggio quasi lunare a riempire lo sguardo, illimitato: questo è il Ladakh, una mappa geologica aperta come un libro. Ma anche confine con il cielo tra i più elevati al mondo. Carrozzabile. Il che rende questa terra unica.
Storicamente, carovane di yak hanno percorso queste montagne e questi valichi infaticabilmente, per un tempo immemorabile. Oggi, il Ladakh, con le strade e i valichi carrozzabili più elevati del pianeta (oltre i 5.000 metri), conserva la sua importanza economica, strategica e militare; non sorprende, quindi, che i vecchi sentieri di montagna siano stati trasformati in una rete di strade asfaltate per le nuove “carovane”. Gli yak sono stati sostituiti da camion variopinti, e le merci (un tempo burro di yak scambiato con riso) si sono in parte rinnovate, ma ornamenti, amuleti e rituali buddhisti di benedizione prima della partenza sono rimasti immutati. Lo stato indiano ha implementato un complesso programma di costruzione di strade, affidandolo all’Indian Border Roads Organization, e il Ladakh si è tramutato in un cantiere stradale perenne. È una lotta impari contro il clima, quella che conducono i cosiddetti stradini: sono condannati, anno dopo anno, a costruire e ricostruire nella breve stagione estiva sempre le medesime strade distrutte dal gelo a ogni inverno.
Sono quasi tutti migranti stagionali. Arrivano a decine di migliaia ogni estate dalle pianure indiane, affrontando un’escursione termica anche di 50°, e lavorano – in assenza di ossigeno – con dispositivi di sicurezza rudimentali (semplici foulard sul viso), accampati in semplici tende, spesso con le loro famiglie, lungo la strada, seguendo il cantiere.
Il risultato è che, a parità di valore pratico e simbolico delle vie tradizionalmente percorse dagli abitanti dell’area, un infinito nastro di asfalto attraversa l’intera regione himalayana. Trasformandone il paesaggio in modo irreversibile».
«Vivo la fotografia come traduzione del mondo, così come lo vedo, in un linguaggio visuale. Un modo di assimilare il tutto attraverso uno sguardo potenziato dall’immagine stessa, che restituisce un ricordo ma anche l’interpretazione del ricordo per chiunque guardi la fotografia». Claudia Ioan
Claudia Ioan nasce a Roma nel 1965, dove si laurea in Scienze Politiche con indirizzo Politico-Internazionale. Vive tra Perugia e Roma, dove svolge la sua attività di fotografa e traduttrice con vent’anni di docenza universitaria alle spalle. Ogni attività è collegata all’altra: al pari della parola scritta in cui vive immersa, anche la fotografia è un linguaggio, che usa per tradurre il mondo che la circonda in immagini articolate in racconto.
In anni recenti, si dedica infatti a forme contemporanee di reportage e visual storytelling. Produce in particolare serie fotografiche in cui l’immagine lavora in sinergia con la parola scritta, di cui è autrice.
La didattica della fotografia è una sua grande passione.
Ha al suo attivo numerose mostre personali e collettive, e le sue fotografie sono state pubblicate su numerose riviste, online e stampate.
Nel gennaio 2016 è stata selezionata dal mensile Style Magazine del Corriere della Sera come uno dei sei talenti fotografici del web e delle piattaforme di condivisione della fotografia.
È Delegata Provinciale di Perugia della FIAF, Federazione Italiana Associazioni Fotografiche; è nel Dipartimento Didattica della FIAF; è Coordinatrice Artistica regionale (CAR) FIAF Umbria e Tutor FIAF per i progetti fotografici collettivi nazionali. È membro e amministratore di HELD Collective, collettivo internazionale di fotografia sociale e documentaria.
Nel 2015 è co-fondatrice insieme a Massimiliano Tuveri di Officine Creative Italiane, laboratorio di comunicazione creativa che realizza come collettivo progetti fotografici e reportage, organizza e cura mostre, concorsi ed eventi di fotografia, e conduce attività didattica. Insieme curano e realizzano il progetto fotografico di AboutUmbria Magazine.
Per approfondire la conoscenza di Claudia Ioan e dei suoi lavori: Instagram, Behance, Flickr.
Rubrica a cura di: Martina Padovan