Emiliano Ponzi, Illustratore: resistere a qualunque moda.

Emiliano Ponzi è uno dei più importanti disegnatori mondiali contemporanei e collabora con alcuni dei più importanti colossi dell’editoria: The New York Times, The New Yorker, PenguinBooks, la Feltrinelli, Newsweek e molti altri. In questa intervista ci ha raccontato cosa significa “non avere un piano B”.

«Hai fame? Io sì. Conosco un posticino qui accanto, una verace osteria milanese sui Navigli che fa un’ottima bistecca. Andiamo. Poi faremo quattro chiacchiere».
Emiliano Ponzi sa come mettere a proprio agio il proprio interlocutore, soprattutto se quest’ultimo, come il sottoscritto, si trova in soggezione a poter intervistare uno dei più importanti disegnatori italiani (e mondiali) contemporanei. Soggezione che non ha nessuna ragione d’essere: il pluripremiato che mi accoglie per la sua intervista, in una fredda giornata meneghina, è un ragazzo pacato nel parlare e con un discreto appetito, frutto di diversi giorni di (probabili) pasti saltati e ore tarde passate a concretizzare un ultimo brief ricevuto.
Emiliano Ponzi nasce a Reggio Emilia nel 1978, ma è ferrarese d’adozione. Nella città estense sviluppa il suo amore-ossessione per il disegno: «Ho iniziato a frequentare un corso di disegno tenuto da uno dei disegnatori di Dylan Dog e ho continuato riproducendo a penna all’infinito i suoi fumetti, per poi dedicarmi a copiare tutti i personaggi del mondo Marvel». Terminato il liceo classico, dopo due tentativi infruttuosi di superare l’esame di ammissione di Scienze della Comunicazione a Bologna e a Padova («non avevo ancora ben chiaro quello che andavo cercando, sapevo solo che non l’avrei trovato se fossi rimasto nella mia confort zone ferrarese») inizia a frequentare l’Istituto Europeo di Design di Milano.
Una volta terminati gli studi, il post-laurea ha rappresentato per Emiliano Ponzi il banco di prova più probante: «Ho capito subito che il mio destino sarebbe dipeso esclusivamente da me e dalla mia forza d’animo. Mi sono letteralmente chiuso in casa, mosso dalla necessità di identificare e far crescere un mio linguaggio, un mio stile di illustratore. Dovevo conoscere meglio me stesso e il lavoro che volevo fare. Il fatto di non avere mai voluto pensare a un piano B in caso di insuccesso mi ha aiutato molto a raggiungere quello che era il mio obiettivo».
Nel 2004 arriva la sliding door che cambia la vita di Emiliano Ponzi: «Il primo lavoro degno di nota è arrivato grazie a una mail di mie referenze, mandata alla redazione del New York Times senza nutrire alcuna speranza in una loro risposta. Invece, mai mi sarei sognato di ricevere una risposta in meno di un paio d’ore e già con un progetto commissionato da realizzare entro due giorni. Si è trattato di uno di quei rarissimi casi in cui la domanda incontra istantaneamente l’offerta. Oggi, credo, una tale coincidenza di momenti non sarebbe più possibile, o almeno non in quella forma».
Da quel giorno, Emiliano Ponzi ha accumulato una serie infinita di collaborazioni, progetti, copertine, grafiche e animazioni per testate e colossi editoriali come Repubblica, The New York Times, Le Monde, The New Yorker, Newsweek, Rolling Stone, Feltrinelli, Mondadori, Corraini, Lavazza, Louis Vuitton, Hyundai, Amnesty International, Armani e altri.


Oggi ha da poco dato alle stampe il suo ultimo progetto nato in collaborazione con il MOMA di New York: The Great New York Subway Map, il libro dove Emilano racconta con le sue illustrazioni come il designer Massimo Vignelli abbia ridisegnato nel 1972 la mappa della metropolitana di New York. Un lavoro che assurge ancora oggi ad esempio per generazioni di designer grazie all’estrema purezza formale e chiarezza dell’informazione che deriva dal brillante uso della geometria.

Emiliano, durante la nostra chiacchierata di stamani, tra i tanti temi toccati ve ne è uno che mi ha particolarmente colpito. Hai insistito molto sul fatto che, oggi, bravura e talento sono condizioni imprescindibili, ma insufficienti per raggiungere il successo professionale.

«Spero di non deludere nessuno affermando che bravura e talento, nel mondo dell’illustrazione così come per tanti altri, non siano affatto sufficienti per aprire automaticamente tutte le porte e dare il via ad una carriera di successi. Il talento, le capacità e la bravura, condizioni imprescindibili per saper e poter fare bene una cosa, qualsiasi cosa, da soli non bastano a veicolare e proiettare al meglio l’immagine di se stessi, che è la vera condizione sine qua non in grado di determinare buona parte del proprio futuro lavorativo.


Oggi più che mai è necessario associare al proprio talento anche una spiccata propensione a relazionarsi e a mettere i tuoi lavori sotto il naso delle persone che in questo ambiente contano davvero. Credo che, anche grazie a questo stato di perenne interconnessione tra le persone dovuto all’avvento del digitale e del web, si sia coltivata l’illusione – o la speranza – di poter bypassare le relazioni interpersonali ottenendo i medesimi risultati semplicemente stando davanti a un monitor, ma non è così. Al contrario, oggi più che mai è necessario “esserci” in carne e ossa, farsi vedere ancora più di prima perché il “rumore di fondo”, quel frastuono che non ti permette di distinguere il valore delle cose, dei lavori, dei progetti, è diventato ancora più forte. Ecco perché è importante oggi più che mai la presenza fisica».

Nel 2004 la tua carriera ha avuto una svolta decisiva grazie al New York Times. Da allora hai inanellato una serie quasi infinita di progetti, collaborazioni, copertine, premi. Immagino però che, nonostante i riconoscimenti, questi ultimi quattordici anni non siano stati scevri da momenti di frustrazione. Come sei riuscito a “mantenere la rotta” nei momenti di difficoltà?

«Più si va avanti nella propria carriera e più si viene percepiti dal pubblico come dei privilegiati a cui vengono aperte tutte le porte. In realtà i momenti difficili persistono e le occasioni negate non mancano perché sono parte fisiologica di un lavoro complesso e non lineare composto da tanti ingredienti di natura diversa: i lavori commissionati, le mostre, le pubblicazioni, i riconoscimenti.
Io non mi sento affatto arrivato – e dove poi? – ma ho sicuramente assunto maggiore consapevolezza ed esperienza rispetto a una decina di anni fa. Questa consapevolezza mi porta a chiedere molto a me stesso e a considerare la posta in gioco ogni volta sempre un po’ più alta.


Più si sale e più i momenti di squilibrio e di caduta sono forti. Quando mi accade, dopo una riflessione analitica sul perché le cose non siano andate come volevo, mi concedo qualche calice di Prosecco per far scivolare via il senso di frustrazione momentanea. La “tenuta di strada” o, per meglio dire, la resilienza è una risorsa importante: porta a mettersi in discussione, aggiustare la traiettoria e continuare ad avanzare con tutte le truppe».

Credo che al mondo esistano due tipi di creativi, quelli autoriali e quelli funzionali. Tutti e due, di fatto, sono in grado di risolvere un problema, ma il primo è totalmente dedito a quello che sta facendo. Emiliano Ponzi.

Questo tuo pensiero fa il paio con la tua affermazione di aver scelto il mestiere di illustratore perché non avevi nessun piano B a disposizione.

«Questa è una cosa che dico sempre quando vengo invitato a tenere degli speech, soprattutto alle persone che pensano che un lavoro come l’illustratore abbia tanto a che fare con la fortuna.
Proprio perché la mia professione, come tante altre, non risponde a un iter di crescita “aziendale” bisogna crearsi da soli un percorso mentale e una strategia di crescita.


Io uso la metafora del piano B. Immagina un trapezista di un circo che deve eseguire un doppio salto carpiato per raggiungere e afferrare il trapezio posto all’altro lato. Se sotto di lui c’è la rete di sicurezza le probabilità che lui possa cadere aumenteranno sensibilmente. Viceversa, in assenza di rete puoi scommettere che il trapezista farà di tutto per non cadere a terra. A livello sinergico utilizzerà tutto il suo essere per raggiungere quel maledetto trapezio dall’altra parte e non spaccarsi la spina dorsale».

Qual è il tuo processo creativo una volta ricevuta la richiesta o il brief da un cliente? Qual è il livello di libertà di interpretare il mondo con i tuoi occhi che ti viene di norma concesso?

«Si va dai due estremi, dall’avere carta bianca a direttive che lasciano poco spazio all’interpretazione. Le seconde sono i lavori più noiosi, ma talvolta anche quelli più remunerativi.
Credo che al mondo esistano due tipi di creativi, quelli autoriali e quelli funzionali. Tutti e due, di fatto, sono in grado di risolvere un problema, ma il primo è totalmente dedito a quello che sta facendo. Un creativo autoriale porta con sé non solo una capacità tecnica e di visualizzazione di colori e luci ma anche un indotto di storytelling, una capacità di narrazione attraverso le sue illustrazioni, è capace di mettere la propria impronta e tutto il suo mondo in ogni lavoro.


Chiunque disegna e crea oggetti parla grazie al proprio lavoro. L’aspetto più interessante di alcuni lavori che ho realizzato, come quelli per il MOMA e per Penguin Books, è stato proprio quello di disegnare i miei sogni e non quelli di altri».

Dando un’occhiata ai tuoi lavori e, soprattutto, alle copertine che hai realizzato emerge chiaramente un linguaggio che mira a invitare chi guarda ad andare a scovare il dettaglio. L’altro aspetto preponderante che ho notato nei tuoi lavori sono le atmosfere che richiamano gli Stati Uniti del dopoguerra.

«Quando realizzo un’illustrazione il mio carattere ossessivo mi porta a voler proporre e risolvere rebus, a partire da una situazione di confusione dove ci sono tanti input per andare poi a semplificare. Vado alla ricerca di quell’elemento che rappresenta il twist narrativo a livello visivo, che altro non è che il desiderio di far indugiare la persona che guarda il disegno oltre i canonici cinque secondi.

Il background americano fa riferimento ad alcune delle mie letture preferite tra cui le opere di scrittori come Carter, Salinger, Jim Tompson. Mi affascinano da sempre queste atmosfere di un’America quasi pionieristica, le immagini delle case di legno, dei distributori di benzina dispersi nel nulla, della Route 66. È stato un punto di partenza da cui mi sto pian piano distaccando. Ora la mia sfida più grande è quella di realizzare metafore visive che ancora non esistono.
Per un lavoro che sto realizzando ho preso ispirazione da “La banalità del male”, il saggio di Hannah Arendt che racconta il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, uno dei maggiori esecutori materiali dell’Olocausto. L’idea è quella di rappresentare come l’educazione alla democrazia possa combattere l’eradicarsi del male.

Sono partito dall’immagine de “l’Uomo Marshmallow”, il cattivo del film Ghostbuster, e l’ho fatto diventare un Kapò nazista. Nella stessa immagine una donnina dal palazzo di fronte lo distrugge grazie a un raggio che scaturisce dalla sua testa. La sfida per me sta nel come rappresentare quel raggio in questo scenario, dove sono presenti tanti paradigmi diversi come il nazismo e la science fiction. Si tratta di assemblare un mondo con un alfabeto ancora tutto da costruire».

Dal 2004, anno in cui hai iniziato a lavorare per grandi testate giornalistiche, a oggi sono cambiate le tecnologie così come, grazie all’invasione del digitale e all’interconnessione virtuale degli individui tramite il web, le dinamiche di comprensione di un’illustrazione, di un disegno o di un video. Come si è evoluto il tuo stile e il tuo processo creativo in uno scenario così mutevole?

«Esistono a mio avviso due timeline, una personale dove il percorso artistico ha una sua evoluzione e l’altra strettamente connessa all’arte applicata alla realtà. Ovviamente nessun artista può ritenersi impermeabile agli stili e alle mode che vanno a svilupparsi nel mondo, ma la domanda da farsi credo sia come possano connettersi queste due timeline . È indubbio che oggi si è testimoni di un appiattimento dell’offerta artistica. Questa presenza straripante dei social network nella nostra vita ha introdotto di fatto un sistema premiante basato sull’immediatezza: vince chi riesce a rendere “digeribili” più facilmente e velocemente i concetti. Questo nuovo paradigma consente anche a chi ha un coefficiente di talento limitato di poter galleggiare, determinando un preoccupante piattume creativo.

Stiamo attraversando una fase temporale molto fluida nella quale è bene cercare di rimanere se stessi pur senza mettersi dei paletti, non diluendo la propria personalità artistica per inseguire la moda del momento, ma trovare la chiave di lettura per “attraversarla”. Perché come diceva Massimo Vignelli, uno dei più grandi designer dei nostri tempi, “se una cosa è fatta bene durerà per sempre”».

Io nutro una stima profonda verso i pochi capaci di evolvere e cambiare pelle senza cadere nel banalità del “trendy”. Emiliano Ponzi.

Hai citato Massimo Vignelli, il quale affermava anche che “la vita di un designer è una vita di lotta contro la bruttezza”. Come combatti la tua battaglia personale con la bruttezza?

«Quella di Massimo è una citazione sacrosanta e verissima, che dice anche un’altra cosa: non dobbiamo dare ai consumatori quello che vogliono, ma quello di cui hanno bisogno. La sua era una battaglia contro il populismo delle arti grafiche e anche una consapevolezza che i creativi hanno un ruolo educational nella formazione del gusto estetico».

 

Per tutta la giornata ti abbiamo visto accompagnato a un quaderno pieno di disegni, graffiti e appunti, come fosse una sorta di pensatoio dove custodire frammenti di un’idea. Qual è il rapporto con la carta di un illustratore abituato a utilizzare la tavoletta grafica come strumento del proprio lavoro?

«Non sono un nativo digitale, ma di fatto ho iniziato a lavorare con strumenti digitali. La mancanza della carta da un lato ti vizia per via della mancanza della possibilità di errore. Il medium carta richiede un coefficiente di controllo diverso dal medium computer e costituisce lo spartiacque capace di dividere chi sa disegnare da chi non è capace di farlo. Tanta dell’uniformità e del piattume che ritroviamo oggi nel mondo digitale è dovuta al fatto di non saper più usare le matite. Il digitale omologa perché è proprio lo strumento a portare a questo, aprendo la strada a un proliferare continuo di copie. Oggi assistiamo a una marcata tendenza a copiare i prodotti: se uno stile funziona, viene riprodotto e moltiplicato da altri, diventa di tendenza, è facile e riconoscibile per tutti. In questo senso si parla di “omologazione di segno”, un appiattimento visivo dove il processo creativo viene ignorato.

Il rischio maggiore diventa allora quello di uscire dal coro, osare e pensare a nuovi modi sempre più personali e autoriali di rappresentazione. Il premio per tutto questo è rappresentato dall’unicità del proprio tono di voce e dalla resistenza a qualunque moda. Io nutro una stima profonda verso i pochi capaci di evolvere e cambiare pelle senza cadere nel banalità del “trendy”.
Al contempo non mi spiego come tanti artisti visivi siano perfettamente a proprio agio a riproporre infinite variazioni sul tema del proprio lavoro, persi in una routine senza uscita. Io non sarei capace di farlo. Ho una necessità di scoperta di nuovi accostamenti cromatici, nuove morfologie per definire il corpo umano, nuovi paradigmi, di scrivere nuovi copioni e mettere in scena i miei attori su teatri diversi».


Articolo: Mauro Farina   Shooting fotografico: Barbara Rigon 

Mauro Farina

Founder - Creative Content Manager

Altoatesino di nascita, bolognese nel cuore e veronese d’adozione, vive in simbiosi con la sindrome del bambino di fronte alla vetrina del negozio di giocattoli. Vorrebbe comprare tutto, ma non potendoselo permettere sublima raccontando ciò che divora con gli occhi.