Diego Rossi, Chef: con Trippa ci siamo presi Milano

Il Trippa-pensiero di Diego Rossi è ormai un culto: ha reinventato la trattoria, fatto innamorare i milanesi del quinto quarto e sovvertito le regole della ristorazione.

Diego Rossi è esattamente come la sua cucina: travolgente, imprevedibile, divertente. Anzi, come tutta la cucina, forse, dovrebbe essere. Lo chef veronese, patron – insieme a Pietro Caroli – di Trippa, è una specie di creatura mitologica venerata tanto dai gastrofighetti meneghini, quanto da foodies, blogger, giornalisti e da tutti coloro che, pur non appartenendo alle sopracitate categorie, amano mettersi a tavola e venire stupiti.

Rinunciare alla mia imparzialità giornalistica quando si parla di Trippa è un atto dovuto: in un’ipotetica linea temporale che scandisce le tappe della ristorazione milanese, esiste un pre-Trippa e un post-Trippa, in cui la trattoria di via Vasari decreta una sorta di ‘anno zero’, di reset totale, di inizializzazione. Il merito va ovviamente a entrambi i fondatori, ma per un qualsiasi avventore è l’inconfondibile mano di Diego a essere la fautrice del Rinascimento del quinto quarto, che – da taglio povero qual era – è stato sdoganato e nobilitato fino a diventare oggetto di culto anche da parte di insospettabili.

Classe 1985, braccia tatuate, bandana in testa, spiccato accento veneto, risata contagiosa e una parlantina veloce, interrotta qua e là da intercalari in dialetto: il marchio di fabbrica di Diego Rossi è un mix difficilmente replicabile, ma spesso imitato con scarso successo. Comincia a lavorare giovanissimo, macinando esperienze: L’Oste Scuro di Verona, la Locanda delle Tamerici a Fiumaretta di Ameglia, il Bauer di Venezia, che considera «l’entrata ufficiale nel mondo della cucina», il St. Hubertus di Norbert Niederkofler, la Locanda Margon di Alfio Ghezzi («un fenomeno: instancabile, tenace, perfezionista»), il Ristorante Delle Antiche Contrade a Cuneo insieme all’amico Juri Chiotti, dove riconfermano per due anni la stella Michelin e Villa Berghofer a Redagno, in Trentino Alto Adige.

Approda a Milano, inizialmente fa consulenze e poi «decido di aprire un posto mio: sembrava ci fossero tanti finanziatori, alla fine però è rimasto solo Pietro». Pietro è (ovviamente) Pietro Caroli, la seconda metà di Trippa, che lavorava in una multinazionale ma aveva una vita parallela da foodblogger: «ci siamo conosciuti a Cuneo, lui e Francesca venivano spesso a mangiare, credevano in me e appena arrivato a Milano è stata la prima persona che ho cercato. Era stufo della vita che stava conducendo, le sue passioni erano il cibo e la musica: ha mollato tutto e si è buttato con me». S’impegnano parecchio per plasmare quel nuovo locale esattamente come l’hanno in mente: «possiedo ancora una lista di appunti presi nel corso degli anni sul telefono: mi sono segnato man mano le cose che mi piacevano nei vari posti che visitavo, sia a livello di cibo che di design». Dalla fusione delle sue note e degli spunti di Pietro, nasce Trippa.

 

Pareti giallo Milano, dimensioni ridotte, arredamento retrò – vintage, ma non vecchio – caldo, familiare, che strizza l’occhio ai figli della ‘generazione del bollito’, i cui ricordi d’infanzia hanno ancora il sapore dell’abitudine settimanale materna: «non sai in quanti mi hanno bocciato il nome ancor prima della partenza. Molti sono ancora convinti si mangi solo trippa! (ride). Noi in realtà prendiamo gli scarti, le parti che di solito nessuno chiede».
Trippa è un’intuizione di Pietro: «volevo un termine che avesse un’ambivalenza, un doppio significato; che fosse solo una parola; che la parola fosse corta; che avesse un suono vagamente onomatopeico. La prima ipotesi fu ‘Testina’, che però esisteva già; io poi avevo pensato a ‘L’Arrotino’, ma appena Pietro se ne uscì con ‘Trippa’, i giochi si chiusero. ‘C’è trippa’ significa ‘c’è sostanza’, quindi delinea una netta inversione rispetto alla mia precedente cucina; la trippa poi è la regina del quinto quarto, e in ogni regione d’Italia esiste almeno una ricetta che la prevede».

Stufo delle derive gourmet, delle location minimal da bauscia, delle eccessive formalità, Diego Rossi prende la trattoria, la gira, la rigira, la svuota, la riempie e la fa risorgere come un’araba fenice. «La mia è una cucina d’improvvisazione, ovviamente nell’accezione positiva del termine. E non si tratta nemmeno solo di cucina, bensì di un’esperienza nel suo complesso. Mi ero rotto le balle di andare in locali fighetti, assaggiare un piatto anche buono, ma in un contesto eccessivamente formale e ingessato… Mi rovinava il pasto».

Mi provoca, domandandomi «Se ora ti dico ‘trattoria’, cosa ti viene in mente?». La risposta la conosce già, e la conosce pure chi ha vissuto il fatidico 2015 a Milano, l’anno di Expo, l’anno durante il quale un nuovo concetto ristorativo emergeva, vincendo a mani basse sul resto. «Abbiamo aperto dicendo ‘spaccheremo il culo e ci prenderemo Milano’», non pensavano certo di dare un simile scossone al panorama gastronomico all’ombra della Madunina. «Quello che faccio per me è talmente normale, che non riesco nemmeno a vederci nulla di speciale… Almeno, lo vedono gli altri. Per me è la norma. Io in un ristorante vorrei mangiare esattamente così».

È quello, il segreto di Diego Rossi: fa ciò che ama, e ciò che ama, piace. Punto. Guai però a definire la sua cucina geniale: «Geniale è chi ha diviso l’atomo! La nostra forza è la comunicazione: se ti racconto un piatto, a te viene voglia di mangiarlo, perché ci metto così tanto entusiasmo che ti viene l’acquolina in bocca. Più che la bravura in cucina – qualunque chef dovrebbe essere in grado di far da mangiare bene – ciò che conta a parità di condizioni è la comunicazione. Perché trasmetto ogni cosa in maniera diretta, in modo che non rimanga un’entità criptica e d’élite, ma diventi popolare, alla portata di chiunque».

«Quello che faccio per me è talmente normale, che non riesco nemmeno a vederci nulla di speciale». Diego Rossi 

 

Come una specie di messia, ma assai più simpatico, ha educato i milanesi alla trippa – la versione fritta è un mai-più-senza – e alle interiora; al midollo arrosto da gustare col cucchiaio, come fosse un dessert; al vitello tonnato divenuto un monumento nazionale. «Lo preparo così perché è l’unico modo in cui riesco a mangiarlo. Mi impongo sempre di fare anche le cose che mi piacciono meno perché non le voglio lasciare fuori dalla palette degli ingredienti, e paradossalmente quelle vengono più buone della media. Perché c’è uno sforzo maggiore, e tale sforzo diviene una virtù in cucina».

 

Non sacrifica il pesce, pescato in Italia (a eccezione dello stoccafisso) e le sue frattaglie: uova di seppia, fegato di rana pescatrice, lattume di tonno, ricciola, ombrina, garusoli, limoni di mare. Se glielo chiedi, ti dice di ritenersi più ferrato sul pesce che sulla carne, salvo poi raccontarti di quando Varvara gli ha mandato un maialino e lui, nemico giurato dello spreco – «non butto mai niente: è contro l’etica e contro il business» –, ha stravolto il menu all’ultimo bollendo le zampe, ottenendo col resto una porchetta, inventandosi un boudin noir con la testa spolpata, le ossa e le interiora. Improvvisazione pura, per l’appunto. In quattro anni scarsi si è originato un galateo che i clienti conoscono a menadito: sanno che l’attesa per accaparrarsi un tavolo è di circa un mese, quindi prenotano a casaccio («Dimmi qual è la prima data disponibile!») e programmano l’avviso sul calendario dello smartphone, fregandosene di ricorrenze, compleanni, anniversari. Una volta a tavola, scorrono rapidamente la carta e aspettano che il loro cameriere di fiducia annunci i fuori menu, frutto dell’ispirazione quotidiana di Diego. Difficilmente comunque rinunciano al vitello tonnato e allo scatto di rito da postare su Instagram, ché il piatto è troppo fotogenico, e ormai ha intasato le bacheche di mezza città.

 

«Mi impongo sempre di fare anche le cose che mi piacciono meno perché non le voglio lasciare fuori dalla palette degli ingredienti, e paradossalmente quelle vengono più buone della media. Perché c’è uno sforzo maggiore, e tale sforzo diviene una virtù in cucina». Diego Rossi 

La fama straripante non ha cambiato il credo di Diego Rossi: «voglio cucinare, ma divertendomi… Non dev’essere troppo un ‘lavoro’». Che si stia divertendo è lampante: lo si intuisce assaggiando le sue creazioni, lo si percepisce quando i suoi ragazzi descrivono i piatti del giorno, lo si annusa persino, varcando la soglia del ristorante. E la classica domanda che ogni buon milanese si pone uscendo da un locale – «Per quale motivo dovrei tornarci?» – nel caso di Trippa ottiene sempre una lunga lista di argomentazioni a favore.
Eppure, lui non ha immolato la sua vita sull’altare della cucina: «ho capito che la mia vita non poteva essere il ristorante stellato, ho un sacco di passioni e non posso stare chiuso venti ore in cucina.

Ciò che stiamo facendo da Trippa adesso è al 60% delle nostre possibilità. Entriamo volutamente alle 16 e lavoriamo otto ore al giorno, mantenendo una vita normale. Proprio per questo non riusciamo a seguire determinate sperimentazioni o preparazioni. È una scelta, siamo scesi a compromessi e va bene così». Una scelta, forse controcorrente, che è valsa a Diego Rossi e Pietro Caroli i Tre Gamberi nella guida di Milano 2018 del Gambero Rosso e l’inserimento tra i Bib Gourmand 2019 della Guida Michelin, che premia i ristoranti con il miglior rapporto qualità prezzo (un menu completo a meno di 32 euro, 35 euro nelle città capoluogo e nelle località turistiche più importanti).

«Non mi interessa l’affermazione, ma riuscire a dire qualcosa, e che questo qualcosa rimanga nel tempo». Diego Rossi 

Con Pietro hanno trovato una quadra: lavorano sì insieme, ma nessuno interferisce nell’area di specializzazione dell’altro. Ergo, Diego è sovrano del suo regno, dove la fantasia circola liberamente senza costrizioni. Persino fuori dai confini nazionali: «mi stanno accadendo cose inusuali per un cuoco di trattoria: Omnivore a Parigi, congressi in California, Istanbul, Tokyo… Prima sarebbe stato inimmaginabile». La sua preoccupazione più grande, però, resta l’eredità di Trippa più che il mero (e indiscutibile) successo: «non mi interessa l’affermazione, ma riuscire a dire qualcosa, e che questo qualcosa rimanga nel tempo».

Il discorso, naturalmente, sfocia sullo scivoloso terreno riguardante le stelle Michelin, croce e delizia di qualsiasi chef che partecipa al campionato di serie A: «sarebbe bello prendere la stella non tanto per la stella di per sé – ho provato quest’emozione quando ero alle Antiche Contrade ed è stata una fortuna, perché poi non l’ho più dovuta rincorrere. Se l’ottenessimo ora, significherebbe che stiamo scrivendo la storia: nessuna trattoria in Italia l’ha mai avuta, saremmo il numero zero, apriremmo una strada finora non battuta».
Lui, che continua a semplificare la straordinarietà del proprio lavoro, pare quasi non accorgersene: la storia in realtà l’ha già scritta, e continua a scriverla ogni giorno – in coppia con Pietro – tra le pareti giallo Milano di quell’incredibile trattoria di via Vasari.

In barba a qualunque stella.

 


Articolo: Marianna Tognini   Shooting fotografico: Alessandra Lanza