Daniele Celona, Cantautore: la musica come terapia

Daniele Celona è un cantautore torinese che ha fatto della musica una terapia per l’anima. Lo abbiamo incontrato nella sua Torino per farci raccontare una vita e una carriera fatta di momenti di buio e risalite.

“E tu che a malapena hai lo smalto da abbinare, pensi di capire? Non vedi manco il sole, figurati il mio cuore”. Continuano a tornarmi in mente le parole di “Acqua” , la canzone che mi gira in testa da settimane e che mi è entrata ormai nella pelle, mentre in auto sto raggiungendo Torino per incontrare Daniele Celona, l’autore di questo pezzo.
È un pezzo che “canta”, senza urla o bisbigli, che parla dritto al cuore, con un testo e un sound che fa dell’inquietudine e della mancanza di compromesso le sue bandiere: tutte caratteristiche care a chi, come me, va a cercare storie che meritano di essere raccontate. E quella di Daniele è da annoverare di diritto a questa categoria.

 
Daniele è quello che si potrebbe definire un “misconosciuto cantautore”, come lui stesso si descrisse all’epoca su un articolo per Panorama. «Anni fa ero più giovane e più stupido, e da quella fase, dopo il naufragio di due contratti discografici che sembravano a un passo, ne uscii con le ossa rotte. Pensavo di scrivere bene quanto e più degli altri e che per questo mi si dovesse qualcosa. Un idiota. Così smisi, nauseato. O meglio smisi di provarci, perché del comporre non sono mai riuscito a fare a meno».


Quel periodo di buio si è interrotto circa nove anni fa. Da allora Daniele è tornato a calcare i palchi e a incidere canzoni. L’album della ripresa, “Fiori e Demoni”, è datato 2012 mentre “Amantide, Atlandite” ha visto la luce nel 2015.
Quando lo incontro nella sua casa torinese, in una fredda giornata d’inverno, Daniele è alle prese con gli arrangiamenti dei pezzi di “Abissi Tascabili”, l’album – fumetto uscito poche settimane fa e presentato al Lucca Comics Festival

Daniele, tu sei nato a Torino da madre sarda e padre siciliano. Queste tue origini familiari hanno lasciato qualche contaminazione dentro di te?

«La Sardegna è stata parte fondamentale della mia adolescenza ed è il luogo dove ancora oggi mi ritiro a scrivere e a disintossicarmi dalla realtà cittadina. La Sicilia devo ancora scoprirla veramente. Un po’ per il difficile rapporto con mio padre, ho finito col sottovalutare l’importanza dell’altra mia isola d’origine. Ci sono tornato poche volte e solo per suonare, ma dovrò senz’altro rimediare,  dedicandole del tempo anche al di fuori dei tour.
Tornando alla Sardegna si può dire che sia importante non solo per ragioni affettive ma anche per una questione di educazione sonora: fin da bambino ho potuto accedere alla musicalità dei cantatori sardi, assistendo alle gare di canzoni in rima alle feste di paese. Ma sono soprattutto le svariate edizioni della rassegna “Ai confini tra Sardegna e Jazz” di Sant’Anna Arresi, il paese natale di mia madre, ad aver rivestito un ruolo davvero importante nella mia formazione. Ho visto passare, suonare, jammare, improvvisare un numero folle di mostri sacri del jazz e della musica contemporanea. Si può dire che derivi da questo e dagli studi di musica classica l’essere uno strumentista molto trasversale, ingordo e poligamo nel gusto musicale».

Torino è la città che ti ha accolto e che ha fatto da scenario alla tua carriera, sia nella buona che nella cattiva sorte. Cosa ha rappresentato e cosa rappresenta oggi questa città per te?

«È una città che amo profondamente, ma è stato comunque un rapporto complesso. Molti anni fa ho passato un periodo in cui mi sentivo non compreso, non sufficientemente apprezzato per la mia scrittura e il naufragare di due contratti major fece da catalizzatore per quel malessere. Era il classico atteggiamento infantile di chi cerca scuse, di chi cerca cause all’esterno prendendosela con un fantomatico ambiente cittadino ostile e non.
Come spesso capita, una volta raggiunto un equilibrio più saldo, maggior consapevolezza e maggior menefreghismo verso gli input e i pareri esterni, anche il rapporto con Torino è decisamente migliorato.
Quando sono stato in grado di aprirmi maggiormente tutto il resto è venuto di conseguenza. La città ha vissuto un momento di risveglio e di emancipazione dal mero dormitorio per gruppi industriali degli anni novanta, culminato con le Olimpiadi del 2006 e con un’intensa attività culturale e artistica. Oggi, a mio modo di vedere, stiamo attraversando un momento di resistenza verso un tentativo di nuova austerità assolutamente incompatibile con le energie che popolano e alimentano la città. Queste ultime la vogliono sempre più internazionale, turistica, un polo culturale e artistico capace di accogliere idee e persone».

«Ci sono autori molto più bravi di me che hanno fatto e continuano a fare una fatica incredibile a veder riconosciuto il proprio valore». Daniele Celona

I testi delle tue canzoni assumono spesso connotazioni autobiografiche: sono pezzi che parlano in qualche modo di te e che assomigliano, se volessimo utilizzare una metafora cinematografica, a dei veri e propri cortometraggi. Aspetto, quest’ultimo, che ha forse un po’ ostacolato il tuo percorso discografico.

«In realtà i brani sono raramente autobiografici. Ma la formula cinematografica alla quale alludi mi appartiene senz’altro. Diciamo che ormai faccio molto più il regista che l’attore e miei sono personaggi spesso caricaturali in cui sì instillo qualche goccia della mie esperienze, ma le porto quasi sempre a un estremo che in realtà io non ho vissuto.
Il riuscire a far tutto questo senza rinunciare al suono muscolare e alle distorsioni è un po’ la sfida che vado cercando. Di certo non spetta a un vecchietto come me risollevare le sorti del rock italiano. Sto solo cercando nel mio piccolo di creare un paradigma nuovo di rock alternativo italiano che non rinunci a un testo importante e a degli arrangiamenti elaborati quando serve.

Questo significa probabilmente restare di nicchia e fuori moda, ma alla fine quello che ci resta e ci distingue è proprio l’incoscienza di seguire la propria strada e il proprio disegno fino in fondo».

Ci sono dei pezzi che scrivi e che poi riponi nel cassetto perché ritieni che i tempi non siano ancora maturi?

«Assolutamente sì. Ci sono tantissimi frammenti sia strumentali che testuali che lascio lì a sedimentare. In fondo il loro compito primario è quello di dar sfogo all’istinto e in quel momento poco o nulla c’entrano con una possibile risoluzione nella forma canzone.
Alcuni di questi frammenti andranno persi, altri rimarranno impressi nelle mie Moleskine o nelle note vocali del cellulare e magari riascoltati a mesi di distanza. L’ascoltare a freddo è un esercizio che permette di guardare le cose dall’alto, di elaborarle e di selezionarle.


Uno dei mestieri dell’autore è proprio quello di scegliere scampoli di materiale e assemblarli nascondendo quanto più possibile i punti di cucitura, cercando di farne percepire la genesi come un flusso unico e continuo».

I tuoi brani sono mediamente lunghi con frequenti cambi di toni e umori, come a sottolineare una continua variazione all’interno dello stesso brano. È corretta questa sensazione?

«Ci sono vari elementi che determinano questo tipo di gusto e di scelta spesso non consapevole come il provenire, ad esempio, da studi di musica classica e da strutture che contemplano il passaggio tra mood e tempi metronomici diversi.
Il secondo elemento è il già citato taglia e cuci di frammenti diversi. A volte sacrifico anche quattro brani potenziali per crearne uno solo. La mancanza generica di qualcosa, la necessità di un ulteriore sviluppo, apertura, climax, spesso vincono su una struttura più razionale e commerciale. Il testo viene poi in qualche modo utilizzato per far da collante al tutto.
Mi sto mettendo però anche alla prova anche su strutture più canoniche. È solo una sfida diversa, perché provare a stare nelle convenzioni, a realizzare un pezzo che “spacchi” e sia in grado di rimanere all’interno dei paletti costituiti, ad esempio, dal tempo radiofonico non è impresa da poco».

«Non potrei passare due anni a fare lo stesso spettacolo con la stessa scaletta e le stesse sonorità». Daniele Celona

La tua carriera è contraddistinta anche da una dimensione live, suddivisa tra elettrica e acustica. In quale delle due ti ritrovi maggiormente a tuo agio?

«Mi accusano ogni tanto di essere più un compositore che un cantautore. Questa mia natura un po’ onnivora si riflette in buona sostanza anche nei live set. Amo tanti generi diversi e quindi non sono in grado di fossilizzarmi in un’unica dimensione.

Non potrei passare due anni a fare lo stesso spettacolo con la stessa scaletta e le stesse sonorità. La dimensione elettrica mi da la fisicità del movimento sul palco, il rumore degli amplificatori, la gioia di vedere il sudore della tua band, le mani alzate del pubblico, le voci in coro.


La dimensione acustica mi regala quel tipo di feeling e di immedesimazione del brano che mi riporta allo stato d’animo che avevo quando lo ho scritto. Finché riuscirò, non rinuncerò a questi tipi diversi di sballo musicale».

In un tuo scritto di qualche anno fa pubblicato su Panorama citavi Battiato per definire questi ultimi anni come “bui”: anni in cui la priorità è quella di raggiungere il successo, che è più importante di essere capaci di scrivere musica interessante. Hai definito questa priorità come “una ricerca che ottenebra, sfocando i contorni di cosa sia realmente importante”. Una ricerca che, in passato, ha influito anche sulla tua vita e sulle tue scelte musicali, non è vero?

«Citai Battiato e le sue parole perché quello che si nasconde dietro a quella frase è una fase che io stesso ho vissuto sulla mia pelle. Quando si è molto giovani e si è portatori del “sacro fuoco”, muori dalla voglia di spaccare il culo a tutti con la tua musica, senza però avere il tempo di renderti conto che le cose possono anche andare anche molto male.
Ci sono autori molto più bravi di me che hanno fatto e continuano a fare una fatica incredibile a veder riconosciuto il proprio valore. Penso tra gli altri a Paolo Benvegnù o Umberto Maria Giardini, artisti che dovrebbero essere citati nei libri di scuola e invece talvolta sono relegati in secondo piano rispetto alla scena musicale più trendy. Si possono vivere periodi interi dove tiri avanti solo perché senti forte il bisogno di scrivere e hai voglia di fare musica. Come ti dicevo poc’anzi è una questione di equilibrio, di superamento di quegli anni bui citati da Battiato. Io sono riuscito a trovare il mio rendendomi semplicemente conto che quello che scrivevo, in particolare nella sua forma primitiva, non poteva davvero rubarmelo nessuno. E che nulla aveva a che fare col successo o il riconoscimento altrui. Sono così uscito dalla lunga pausa presa tra 2002 e 2009, perché avevo voglia di regalarmi un disco mio, un segnalibro della pagina a cui ero arrivato.
In quegli anni ho cercato di dare una mano ad altre band e andando in giro con loro mi è tornata la voglia di stare anche sopra il palco. Cerco di lasciare qualcosa di me, e suonare mi fa stare bene, non credo servano altre giustificazioni. C’è poi l’aspetto dell’incontro col pubblico. Girare per date ti permette di incrociare altre vite e altre storie. Sono momenti di scambio tanto invisibili quanto importanti.
Essere di ispirazione ad altri musicisti, indicare una via diversa di scrittura o di concerto è qualcosa di molto potente. Forse non rimarrà nei libri di storia, ma in quel momento ti dà fiato ed energie per proseguire lungo la tua irta strada».


Articolo: Mauro Farina   Shooting fotografico: Martina Padovan 

Mauro Farina

Founder - Creative Content Manager

Altoatesino di nascita, bolognese nel cuore e veronese d’adozione, vive in simbiosi con la sindrome del bambino di fronte alla vetrina del negozio di giocattoli. Vorrebbe comprare tutto, ma non potendoselo permettere sublima raccontando ciò che divora con gli occhi.