Daniela Scalia, Journalist, city & sport field, Verona, Italy

Daniela Scalia giornalista

È la passione a produrre il talento; quella forza motrice che permette, a chi ha una predisposizione all’intraprendenza e alla perseveranza, di raggiungere qualsiasi traguardo. Daniela Scalia, veronese, ha trovato nello sport la sua forza motrice, dapprima come pallavolista per poi spiccare il volo come giornalista, anchorwoman, atleta polivalente e ora attrice e co-autrice della prima crime fiction a tema sportivo di prossima uscita sui maggiori network internazionali.

Daniela, iniziamo con alcuni tuoi cenni biografici: gli inizi a Verona come corrispondente sportiva e poi il tuo passaggio davanti alle telecamere con Sportitalia.

Ho avuto un’infanzia felice, tra sorelle, genitori e allegria. Se mi guardo indietro posso solo rammaricarmi di non aver approfittato maggiormente di quanto la mia città fosse in grado di offrirmi, ma ad ogni modo conservo bei ricordi. Da un punto di vista sportivo agonistico sono stata pallavolista. IMG_9109 Disciplina bella ma sofferta, la pallavolo, che mi ha portato ad una doppia operazione ai legamenti del ginocchio, forse perché mi allenavo troppo o non curavo le posture giuste. Ma la passione per il volley mi ha portato a coltivare anche quella per il giornalismo. Ho iniziato a scrivere a 16 anni, a 17 ero corrispondente per la Gazzetta dello sport, a 19 ho seguito i mondiali di volley in Grecia. Poi ho avuto spazio per raccontare anche altre discipline grazie a testate come Verona Fedele, L’Arena e alcune tv regionali. Infine, nel gennaio 2004 sono passata alla redazione di Sportitalia.

Come è nato il tuo interesse per il rugby e, a seguire, per sport sconosciuti o quasi in Italia come il Rugby League, il football australiano, il football gaelico e il cricket?

Tutta “colpa” di Luca Tramontin.  Ci siamo trovati come “compagni di banco” a Sportitalia. Era l’unico della redazione ad avere un passato sportivo di alto livello e ad essere un accanito sostenitore del fatto che non si può parlare di uno sport ignorando il suo contesto.

Daniela Scalia e Luca Tramontin alla conduzione del defunto SI Rugby

Escludendo i giocatori di scuola italiana, argentina e francese, tutti i rugbisti d’estate giocano a cricket, e certi termini tecnici sono comuni in entrambe le discipline. Concordo con Luca, come fai a capire il mondo dei rugbisti se ignori quello che fanno per tutta l’infanzia e per tutta l’estate?

 

Cricket, Daniela Scalia in battuta

Il rugby è padre del football australiano e di quello americano, ha un origine comune con l’hockey, la pallanuoto e tutti i tipi di football. Il rugby a 15  giocatori ha un gemello che si chiama “League” o Rugby a 13; il tutto è legato in un unico contesto e oggi ignoro anch’io come sia possibile teorizzare su un fiore senza sapere dove crescono le radici della pianta.

«come fai a capire il mondo dei rugbisti se ignori quello che fanno per tutta l’infanzia e per tutta l’estate? Il rugby è padre del football australiano e di quello americano, ha un origine comune con l’hockey, la pallanuoto e tutti i tipi di football. il tutto è legato in un unico contesto e oggi ignoro anch’io come sia possibile teorizzare su un fiore senza sapere dove crescono le radici della pianta».

 

9U1A5414a(1)Poi dal lato strettamente sportivo la curiosità è diventata anche sociale e geografica.

Proprio così, ho scoperto che nello sport britannico il concetto di club supera quello di squadra: è inclusivo, c’è posto per tutti, dai professionisti della prima squadra ai genitori che preparano le merende per le squadre giovanili, dove l’anziano che racconta le sue storie di sport, il custode che lava gli spogliatoi o anche il giardiniere che cura l’erba del campo sono venerati come il più famoso dei giocatori.

Questa attenzione dal punto di vista sociale del rugby si è trasformata nella volontà di scendere in campo?

Si, questo ha fatto maturare l’esigenza di mettermi in gioco anche fisicamente. Sono scesa dallo sgabello della conduzione e ho iniziato a provare in campo quello di cui parlavamo in televisione. Ho iniziato con il football australiano poi, dopo essermi ripresa da alcuni malanni fisici, sono arrivati anche il calcio gaelico, il cricket e il rugby a 15 giocatori.

 

Lo sforzo fisico è ragguardevole ma praticando una disciplina contestualmente mi alleno per un’altra. Impostando la stagione alla maniera “britannica”: sono riuscita a giocare con la nazionale italiana di football gaelico a novembre contro la Francia, per proseguire poi con il rugby con la squadra di Casale e a primavera a ritrovare il cricket con l’Olimpia Postioma, fino alla tournée di agosto con la nazionale in Irlanda e nelle isole Jersey. In mezzo, per puro diletto, anche un po’ di hockey su ghiaccio, di atletica, di basket, perché la multi-sportività non solo rende gli allenamenti più divertenti, ma migliora posture e abilità. Se solo l’avessi saputo da ragazza sicuramente sarei stata una pallavolista migliore.Daniela Scalia nel warm up Italia-Irlanda

Chi è stato il tuo mentore in questo percorso sportivo?

Luca Tramontin.

E tra i rapporti giornalistici che hai instaurato con giocatori professionisti, chi ricordi in particolare?

Assieme a Luca, che a Sportitalia era il mio co-condutttore, non abbiamo mai realizzato interviste classiche, quelle a “domanda/risposta”. A volte si fa fatica a contenere gli atleti, sono loro a fare domande. Tra le più belle direi quella con Daniel Varga, l’artista della pallanuoto. E poi i fratelli Klitschko, con le loro sorprendenti visioni storiche e politiche del pugilato o con Ian Paice dei Deep Purple, che spesso suona con Walter Dal Farra, il master delle colonne sonore della fiction Sport Crime, a cui io e Luca stiamo lavorando. Ian è un grande appassionato di rugby con un figlio giocatore, ed è una miniera di aneddoti e curiosità da raccontare.

Da anchorwoman per una redazione sportiva ad autrice e attrice per Sport Crime, la prima fiction a tema sportivo. Puoi descriverci questo progetto e quali sono i tratti distintivi rispetto ad altri format dello stesso filone?

In Croazia il quotidiano “Novi List” ha titolato «Un CSI con lo sport al posto del sangue», e credo sia una descrizione azzeccata. La trama è fondata sulle vicende legate ad un’agenzia investigativa di Lugano che indaga per proteggere lo sport e i suoi valori. Quando abbiamo avuto l’idea abbiamo registrato il format, il nome, il sito, tutto nel più assoluto riserbo per proteggerci da eventuali furti, che sono frequenti nel mercato della fiction internazionale. Abbiamo realizzato il trailer con Max Mazza e gli amici del Rugby Rovigo a Polcenigo, e poi siamo partiti per Cannes, alla fiera internazionale della televisione, a proporre il nostro format.

Siete proprietari dei diritti?

Sì, e anche della colonna sonora e di parte delle quote di produzione. Ci siamo impegnati economicamente pur di mantenere i diritti e, paradossalmente,  sarà una fiction internazionale, prodotta in Svizzera e realizzata da due veneti. In Italia potrà essere considerata un prodotto d’importazione.

Vedendo il trailer parrebbe una serie assolutamente inedita per quanto riguarda il tema sportivo ma classica per stile narrativo, o sbaglio?

Deve piacere agli sportivi e ai non sportivi. Rispetto alle altre serie mantiene quindi gli elementi classici, ma la grande novità è appunto la centralità dello sport, dei suoi gesti, delle sue dinamiche psicologiche, del suo humour e delle sue “scenografie”. Per questo motivo lo sport all’interno della serie è vero. In serie televisive cult come ad esempio Csi, Bones, Profiling, etc. ci sono alcuni episodi a tema sportivo. In altri casi, come ad esempio la serie Ballers con Dwayne Johnson è tutta sullo sport, ma solo sul football americano e quindi riguarda una nicchia. Sport Crime invece è totalmente europea e tratta a ogni puntata uno sport diverso.

Quanto c’è di vero nelle storie di Sport Crime?

Moltissimo anche se niente viene raccontato così com’è, le fonti sono mascherate e le storie romanzate, ma il nocciolo è quasi sempre qualcosa che abbiamo visto, sperimentato, intuito o sospettato nelle nostre vite di giornalisti, atleti e allenatori.

In mezzo un’importante partecipazione a “Ferite A Morte” come lettrice nel progetto teatrale sul femminicidio scritto e diretto da Serena Dandini. Cosa ti rimane di quest’esperienza su un tema quanto mai attuale?

Partirei da una premessa: la violenza è figlia della paura e della repressione psichica; le persone represse picchiano, brontolano, spaventano i figli e le mogli. Le mamme represse urlano a vanvera, i padri sono più forti fisicamente e alzano le mani. La famiglia, ed è strano che sia io a dirlo vista la mia adorazione per il modello classico, è spesso la zona infetta dalla quale partono le tensioni peggiori. La chiave di volta è il divertimento, e qui si torna allo sport, alla musica, a quello che si vuole, purché la cura sia molto forte. L’uomo represso perché costretto forzatamente a interpretare un ruolo diventa facilmente un automobilista cattivo o un marito violento. Che vada a giocare a hockey se ha davvero tanto coraggio. I più grandi guerrieri in campo sono quasi sempre degli esseri dolcissimi fuori.

«L’uomo represso perché costretto forzatamente a interpretare un ruolo diventa facilmente un automobilista cattivo o un marito violento. Che vada a giocare a hockey se ha davvero tanto coraggio. I più grandi guerrieri in campo sono quasi sempre degli esseri dolcissimi fuori».

Detto questo l’esperienza con Serena e le altre lettrici è stata molto forte, bella e tremenda insieme. È stata una sera d’agosto nella cornice magnifica del Teatro Romano di Verona, nella mia città, insieme a donne intelligenti, appassionate, forti e pure fragili perché quando leggi certi brani e sai di raccontare storie vere ti senti esposta, ma senti anche di stare dando voce a un messaggio importantissimo e dietro le quinte, a fine serata, ho sentito come si fosse creato tra noi un legame speciale.

Contestualmente al progetto di fiction televisiva, segui con attenzione e passione a diverse forme di sport per disabili, come il basket e il rugby su carrozzina. Quanto ti ha arricchito conoscere  un ambiente sportivo dove passione e impegno sono pari se non superiori ai contesti per normodotati?

Fatico a trovare la distinzione. Se mettiamo un pilone del rugby a fare il mediano di mischia diventa “handicappato” dal suo fisico, idem per un mediano di mischia che dovesse invece spingere come prima linea. Sono esempi che facciamo spesso nelle conferenze o nelle esperienze aziendali che ormai sono il nostro secondo lavoro, almeno fino al varo di Sport Crime. Esistono le caratteristiche più che gli handicap. Parlando di basket in sedia a rotelle, quando posso, vado ad allenarmi con i Ticino Bulls a Bellinzona. Rainero, l’allenatore, accoglie tutti, compresi i normodotati, a giocare seduti sulla carrozzina. Non capirò mai perché un atleta infortunato ad una gamba non debba allenarsi e divertirsi con loro. Purtroppo, al momento, l’esperienza con il rugby in sedia a rotelle e con lo sledge hockey è stata marginale per questioni logistiche, ma sono altri due sport eccezionali da giocare e soprattutto godibilissimi come spettacolo sportivo, provare per credere (provate a guardare nei prossimi giorni su Raisport il Torneo Internazionale di Sledgehockey di Torino, ndr.). E spesso i normodotati si riconoscono perché sono più scarsi degli altri, a cominciare da me ovviamente.

Parlando di sport “minori” per il panorama italiano, come ad esempio il rugby, nonostante l’interesse per eventi come il Six Nations o gli All Blacks non ci sono segni tangibili di una crescita dinamica e costante del movimento. Per certi versi, non si è ancora riusciti a ragionare in termini di “franchigia” e di “senso di appartenenza” come invece è tradizione nei paesi anglosassoni. Qual è il tuo punto di vista?

Le franchigie sono squadre artificiali, che in Europa funzionano solo se ricalcano qualcosa di antico, come le contee irlandesi, vedi che già in Galles si fa fatica a mettere insieme paesi anticamente rivali. Ma credo che i problemi di base siano altri, soprattutto comunicativi. Gli altri Paesi latini hanno sradicato la declinazione della parola “macho”, anche con dolore e sensi di colpa verso i veterani di questo sport. In Italia, invece, non si è fatto come in Francia e Argentina.

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Inoltre, e ammetto di essere di parte, credo che il rugby sia “comunicato” malissimo, con un’overdose di enfasi e di  glamour, con il luogo comune che la storia sportiva e la tradizione costruita su di essa non creano audience televisiva. E qui mi fermo, ma solo dopo aver ricordato i successi di Total Rugby e Si Rugby, i programmi che conducevo durante la mia esperienza televisiva a Sportitalia.

 

IMG_9102Dopo tanti anni di lavoro in televisione a Milano hai preso la decisione di tornare a Verona, la tua città natale. Da un punto di vista di un’atleta agonista dedita a svariate discipline come si coniuga Verona rispetto alle esigenze di allenamento costante in confronto ad una metropoli?

Avendo Sport Crime solo interlocutori stranieri non era più necessaria base a Milano, quindi la cosa più’ logica è stata ritornare a casa, a Verona, ben sapendo che dopo Sport Crime sia io che il mio partner  ci sposteremo ancora. Abbiamo deciso che in primavera, dopo aver portato la fiction al festival di Cannes, ci prenderemo una vacanza e faremo il punto della situazione.  Al  momento a Verona sto bene, rivedo la città in una chiave diversa, forse serve davvero andarsene per apprezzare maggiormente i luoghi in cui hai vissuto l’adolescenza. Mi alleno molto meglio qui, ci sono distanze più umane, sia in minuti che in chilometri, e da qui sono riuscita a raggiungere spesso Treviso e Casale sul Sile, dove prima o poi ambienteremo una puntata della serie televisiva. E a Verona sono anche nelle condizioni di poter giocare a ottimo livello a cricket o a rugby con squadre del posto. E benché mi piacciano molto il Ticino, il Sile e il Tamigi, l’Adige rimane il fiume a cui sarò sempre più legata.

Articolo: Mauro Farina  Shooting fotografico: Adriano Mujelli per The Creative Brothers e immagini di repertorio fornite da Daniela Scalia.

 

Mauro Farina

Founder - Creative Content Manager

Altoatesino di nascita, bolognese nel cuore e veronese d’adozione, vive in simbiosi con la sindrome del bambino di fronte alla vetrina del negozio di giocattoli. Vorrebbe comprare tutto, ma non potendoselo permettere sublima raccontando ciò che divora con gli occhi.