Cristiano Silei è il CEO di Dainese e di AGV. È stato in precedenza vice presidente Sales & Marketing di Ducati. E ha una storia di cultura dell’innovazione da raccontare.
Barry Sheene, Giacomo Agostini, Carl Fogarty, Valentino Rossi, Marco Simoncelli, Christian Ghedina, Sofia Goggia. Sono solo alcuni dei nomi che si possono leggere sui muri, sulle immagini e nelle sale meeting a loro dedicate all’interno del quartiere generale di Dainese, alle porte di Vicenza.
Lino Dainese, fondatore e attuale detentore di una quota di minoranza, fondò nel 1972 la sua azienda proprio per gente come loro. “Eroi dei nostri tempi”, così definì i piloti che rischiavano la morte a ogni gara, “e proprio per questo bisognosi di essere protetti per permettere loro di realizzare i propri sogni”. Ispirata da questa fortissima vocazione umanistica, l’azienda vicentina ha rivoluzionato il corso degli eventi nell’ambito degli sport dinamici introducendo nel corso degli anni una serie di prodotti rivoluzionari per i motociclisti come la prima tuta tecnica da gara (1975), il paraschiena (1978), la protezione rigida del ginocchio (1980), la gobba aerodinamica sulla schiena (1988), i guanti con inserti rigidi di carbonio (1995), il sistema airbag D-Air all’inizio del nuovo millennio. A quasi cinquant’anni dalla fondazione, Dainese oggi ha espanso il proprio raggio d’azione fino ad abbracciare il mondo delle biciclette, dello sci, dell’equitazione e, non ultimo, della vela.
A guidare oggi l’azienda c’è un uomo in missione.
Cristiano Silei ricopre la carica di CEO di Dainese (e di AGV, il brand di caschi acquisito dal Gruppo nel 2007) dal 2015, anno in cui ha lasciato Ducati da vice presidente Sales & Marketing. Da cinque anni alla guida del brand specializzato nell’equipaggiamento tecnico e nelle protezioni per sport dinamici: moto in primis, ma anche sport invernali, mountain bike, vela ed equitazione. Il suo arrivo in Dainese ha portato una sferzata in termini di investimenti con 250 assunzioni in quattro anni, una rinnovata attenzione al benessere dei propri collaboratori e, non ultimo, a un fatturato complessivo record di oltre 200 milioni di Euro nel 2019.
Cristiano Silei mi accoglie con un sorriso e un invito a prendere un caffè.
Il suo ufficio ha ampie vetrate con vista sull’ingresso del DAR (Dainese ARchivio), l’esposizione permanente che racconta la storia di Dainese, storia che ha inizio da un viaggio in Vespa di un gruppo di amici con destinazione Londra e giunge fino ai progetti di tute spaziali per gli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale. In questo ufficio ogni metro racconta qualcosa di Cristiano, uomo prima ancora che manager. Tra i vari oggetti e le memorabilia, l’occhio mi cade su una grande foto incorniciata alla parete. Ritrae Cristiano Silei e un collega in sella a due Ducati ST42, verso la fine degli anni ’90. Sullo sfondo l’inconfondibile sagoma di una torretta di osservazione tipica delle spiagge di Venice Beach. Cristiano nota la mia curiosità e mi viene in soccorso. «Quello è un viaggio alla scoperta delle strade del sud-ovest degli Stati Uniti. Oltre 5000 miglia senza mai un problema tecnico. È stato uno di quei viaggi che è rimasto indelebile nella mia memoria».
Gli confesso che non potrei immaginare un CEO a capo di Dainese diverso da un biker. Lui annuisce. «Sono motociclista da decenni, non potrebbe essere altrimenti. Il fatto di coniugare da anni la passione per la moto con il mio lavoro mi fa sentire come se non lavorassi mai un giorno della mia vita. Questo non vuol dire che io non sia stanco alla fine della giornata, ma l’entusiasmo che provo per le cose che faccio non mi fa percepire la fatica».
Certo le passioni di Cristiano Silei non si fermano alle due ruote. Mentre ci dirigiamo dal suo ufficio all’Archivio Dainese, ad una mia domanda diretta su altri hobby non può fare a meno di fermarsi un momento e rispondere sorridendo. «Sono reduce da una serata intensa con i “Magnagati” la mia combriccola vicentina di amici con cui gioco a Subbuteo. So che ormai è un gioco per pochi intimi, ma io non riesco proprio a smettere. E da buon toscanaccio, nelle partite schiero in campo sempre la stessa squadra, la Fiorentina titolare dei ruggenti anni ’80».
Iniziamo la nostra chiacchierata partendo proprio dalla Toscana. Tu sei senese di nascita, bolognese d’adozione e motociclista per passione prima che per lavoro. Dopo vent’anni nella Motor Valley ora sei passato a dirigere un altro brand iconico nel settore dello sport. Cos’altro c’è da sapere di Cristiano Silei?
«Sono una persona indipendente, curiosa e fortunata. Fortunata perché sono immerso da oltre vent’anni in un mondo, quello delle moto, caratterizzato da un altissimo livello di autenticità, peculiarità non sempre riscontrabile in tanti altri ambiti. I motociclisti, come del resto molti sportivi, sono perlopiù persone autentiche e proprio per questo le loro passioni sono vere e vissute in profondità. La vita mi ha presentato delle opportunità proprio in quest’ambito e io ho avuto la prontezza di coglierle».
Hai lasciato Ducati dopo un ventennio e dopo aver ricoperto, tra gli altri, anche il ruolo di Vice President Sales & Marketing. Quali sono stati i maestri che ti hanno formato come dirigente e come uomo di business?
«Un’impronta importante nella mia formazione è stata impressa proprio dalla mia esperienza in Ducati, dove ho trascorso ben diciannove anni ricoprendo svariati ruoli. A Borgo Panigale ho trovato due mentori eccezionali, Federico Minoli su tutti. Federico è stato amministratore delegato dal 1996 al 2007 e da lui ho imparato tante delle cose che applico oggi come CEO in Dainese. Ciò che ancora non sapevo me lo ha insegnato poi Gabriele Del Torchio, il suo successore, persona dalla spiccata capacità gestionale. Quando dico di essere una persona fortunata mi riferisco anche al fatto di avere avuto il privilegio di apprendere da due eccellenti insegnanti dal punto di vista manageriale».
In che modo l’esperienza Ducati ha lasciato il segno sul Cristiano di oggi?
«Un ventennio passato a “vivere” un marchio della caratura di Ducati ti lascia tante cose sotto la pelle. Ho appreso come si gestisce un’azienda sotto molteplici ambiti, dalla pura strategia ai piani di sviluppo di un prodotto, dal commerciale al marketing.
A Borgo Panigale, tra le altre cose, ho compreso cosa significhi veramente essere un brand rispetto ad un’azienda “normale”. Ho vissuto nel suo significato più profondo i valori più importanti delle competizioni, che non sono solo quelli umani ma anche quelli strettamente legati al modo di affrontare una performance. Oggi questi valori fanno intrinsecamente parte del mio modo di essere.
Un altro aspetto è il vero concetto di “bellezza”, elevato a valore superiore che deve diventare faro e guida nelle cose che realizzi e come le comunichi. Sono pochissime le aziende capaci di lasciarti un imprinting così forte. Ducati è una di queste».
«In Dainese sono stato agevolato in questo da un meraviglioso senso di appartenenza dei dipendenti e di tutti i collaboratori». Cristiano Silei
Da lì, poi, sei approdato in Dainese. Qual è il valore aggiunto che ritieni di aver portato in questa nuova avventura?
«Ho trovato un gruppo con una forte identità e cultura di innovazione, due pilastri che non si costruiscono dall’oggi al domani. Ritengo di avere portato quello che mancava a quest’azienda, ovvero la capacità di ragionare e operare al passo con i tempi, e di guardare a se stessa come un vero e proprio campione. Usando una metafora calcistica, Dainese appariva come una squadra dal grande blasone ma che non riusciva a vincere da un po’. Per questo motivo era fondamentale riportare in seno all’azienda orgoglio, fiducia e consapevolezza. Sono stato agevolato in questo da un meraviglioso senso di appartenenza dei dipendenti e di tutti i collaboratori. Qui la gente si sente proprio parte del tessuto vitale del marchio.
La mia filosofia è semplice: non si può pensare di scendere in campo non dando sempre il 110%. Si potrà vincere o meno, perché naturalmente bisogna tenere conto della forza degli avversari, ma ci si deve porre nelle condizioni di giocarsela su ogni campo e, cosa non secondaria, di analizzare la propria performance in modo critico. Dove siamo stati bravi? Dove possiamo migliorare? Cosa hanno fatto gli altri per vincere? Ecco, in Dainese ho portato un modo di pensare orientato alla performance».
Facendo scouting tra le tue dichiarazioni rilasciate in precedenza alla stampa, non è possibile non notare la tua predisposizione ad avere una visione di ampio respiro nella crescita di un brand, visione che va ben oltre il mero raggiungimento di obiettivi posti da un budget.
«Io identifico due tipi di visione. La prima non può prescindere dalla strada che porta a realizzare il miglior prodotto possibile. Henry Ford ripeteva spesso che se, ai suoi tempi, si fosse limitato a chiedere ai suoi clienti cosa volevano, si sarebbe sentito dire che erano necessari cavalli più veloci per le loro carrozze.
I clienti devono essere ascoltati sempre, perché la loro soddisfazione è un requisito fondamentale e imprescindibile, però non va chiesto loro di fare il nostro mestiere. Andare a capire che cosa gli serve o gli servirà in futuro è una precisa responsabilità dell’azienda. L’elemento su cui bisogna ragionare sta nella corretta comprensione del bisogno che vai a soddisfare. È quello il punto di partenza per andare a sviluppare le soluzioni che ancora non ci sono, ed è l’unica strada per chi vuole innovare sul serio. Dainese studia da tempo i bisogni del corpo umano in condizioni estreme, che siano queste ultime in moto al Mugello a 360 chilometri orari, un salto sulla Streif di Kitzbuhel in discesa libera, un’attività extra veicolare nello spazio o in America’s Cup a oltre 50 nodi.
Dobbiamo studiare come garantire un livello assoluto di protezione e comfort in qualunque condizione e, una volta trovata la chiave di volta, tradurre il tutto in un prodotto valido per tutti i giorni.
L’altro tipo di visione che identifico è quello intrinsecamente legato alla missione sociale di un’azienda. È importante avere un’idea chiara di se stessi e di quello che si fa. Chi fa il mio mestiere non può esimersi dal porsi delle domande. Qual è lo scopo di un’azienda? È funzionale solo a fare profitti? A fare contenti i clienti? Sono convinto che Dainese abbia una missione che va ben oltre il mero profitto, è un’azienda dal fortissimo impatto sociale. Produrre innovazione, generare occupazione, formare persone in grado di portare cultura di prodotto e manageriale in Italia, che ne ha un grande bisogno. Per fare questo è necessaria una cultura aziendale in cui l’uomo sia posto al centro del progetto».
Esiste una ricetta per concretizzare questa visione?
«Prima di tutto bisogna averne una e, in secondo luogo, essere capaci di incarnarla, di raccontarla e di comunicarla attraverso l’organizzazione. Senza mai scordare di essere il primo a dare l’esempio. In Dainese organizziamo almeno due incontri l’anno con tutti i nostri dipendenti e collaboratori per condividere e raccontare tutto quello che succede in azienda. Ognuno di loro deve e vuole essere stimolato e motivato. Certo anche la figura dell’eroe, rappresentata alla perfezione dai nostri testimonial nel mondo dello sport, ci dà una grande mano in questo processo motivazionale.
Testimonial Dainese del calibro di Valentino Rossi o di Sofia Goggia nello sci e di tanti altri grandi atleti che con orgoglio vestono il nostro marchio aiutano le persone a immedesimarsi nell’immagine del campione”. Da parte mia ho creato la figura del villain ovvero l’avversario o meglio il competitor. Perché identificare l’avversario tende sempre a unire le persone verso un obiettivo comune».
Ascoltando le tue parole è impossibile non notare una forte connotazione filosofica nel tuo pensiero.
«Citando Newton, tutti noi abbiamo bisogno di sederci alle spalle dei giganti venuti prima di noi per permetterci di guardare ancora più lontano. Io non mi ritengo affatto un filosofo, sono semplicemente una persona che cerca di farsi delle domande. Sono convinto che noi come esseri umani siamo inseriti all’interno di un sistema di leggi che governano l’universo e credo che noi, come la natura, rispondiamo a tali leggi. A noi spetta lo sforzo di intuirle e di capire come allinearsi a queste regole. Quanto più un uomo riesce ad allineare sé stesso a leggi più grandi di lui tanto più sarà in grado di creare qualcosa di positivo per il suo ambiente, a maggior ragione in un’azienda che io ritengo a tutti gli effetti un organismo vivente. Se si riesce a muovere questo organismo in una direzione corretta si genera valore. Certo bisogna avere prima piena consapevolezza dei propri valori».
In questo scenario un ruolo importante è rivestito dal welfare aziendale, tema che va di pari passo con la generazione di valore. Come si è intervenuti in questi ultimi anni per sostenere e accrescere il benessere e la motivazione dei collaboratori del Gruppo Dainese?
«Come amministratore delegato devo ovviamente sempre essere molto attento ai numeri, ma il mio intento primario è anche quello di costruire qualcosa di moderno e funzionale nel quale porre l’essere umano al centro mettendolo nelle condizioni di operare al meglio.
È in quest’ultima affermazione che io trovo il vero significato della parola welfare. Su questo aspetto mi sono reso promotore di una serie di iniziative tese a migliorare l’ambiente di lavoro presso tutte le sedi del brand del gruppo. In questi anni abbiamo attivato la flessibilità dell’orario di lavoro e la possibilità per i dipendenti di lavorare un giorno a settimana da casa. Non meno importanti sono i permessi solidali, introdotti in accordo con i sindacati per permettere la condivisione di ferie e permessi con i colleghi che ne hanno necessità.
Abbiamo anche pensato a come rendere più accoglienti e fruibili gli spazi lavorativi allestendo, tra le altre cose, una palestra per i dipendenti e un micro market. Sono solo alcuni degli interventi realizzati in questi anni.
Tutte queste iniziative hanno avuto un riscontro totale e positivo da parte dei nostri collaboratori. Questo perché le persone rispondono di conseguenza al tipo di energia che ricevono. Se questa energia si basa sulla fiducia e sul rispetto il risultato non potrà che essere eccellente».
Per un’azienda fortemente orientata all’innovazione credo sia imprescindibile associare al know-how e alla cultura d’impresa anche una notevole predisposizione all’intuizione, a riuscire a capire e interpretare prima di altri gli scenari futuri. Quanta importanza riveste questa peculiarità nel piano strategico di Dainese?
«Credo che l’intuizione sia una capacità da coltivare e che debba avere un ruolo centrale in un’azienda che vive di innovazione. Non potrebbe essere altrimenti. Saper astrarsi dal conosciuto ed entrare in un reame dove si raccolgono una serie di evidenze, di sensazioni e di informazioni permette di cogliere qualcosa che non c’è e che poi diventerà la soluzione per portare avanti un progetto o un’attività creativa. Non puoi inserire un’intuizione in un piano strategico, ma puoi lavorare in un contesto che facilita questo particolare modo di comprendere la realtà».
«Non puoi inserire un’intuizione in un piano strategico, ma puoi lavorare in un contesto che facilita questo particolare modo di comprendere la realtà». Cristiano Silei
C’è una ricetta in grado di traslare un’intuizione da un singolo individuo a un collettivo? Come si riesce a mettere un’azienda a rincorrere l’intuizione?
«La mia storia personale è costellata di episodi di uscita da zone di comfort. Ho sempre cercato responsabilità che fossero apparentemente al di fuori delle mie capacità e ho avuto la fortuna di trovare persone che mi hanno dato fiducia. Questo perché sono una persona curiosa che per crescere si deve confrontare con cose nuove.
Questa mia propensione personale l’ho applicata anche qui in Dainese: per natura tendo a portare tutti i miei collaboratori costantemente al di fuori della comfort-zone. Cercare soluzioni che non conosciamo oppure un’area di intervento mai affrontata prima, una nuova tecnologia o un benchmark mai esplorato in precedenza. L’obiettivo finale è sempre lo stesso: rendere concreta un’idea e realizzare un progetto al meglio delle nostre possibilità».
Qualunque carriera manageriale, anche quelle all’apparenza più brillanti e lineari, non può prescindere da momenti di crisi personale e di difficoltà. Se tu dovessi guardare indietro al tuo vissuto lavorativo, riesci a isolare un particolare momento di criticità che hai dovuto affrontare? E se sì, come sei riuscito a reagire e a uscirne?
«Non esistono percorsi netti nella carriera di una persona, e se esistessero sarebbero terribilmente demotivanti. Nella vita si fa, si sbaglia, rischiando anche di andare contro sé stessi. Con il tempo, poi, si maturano delle convinzioni, e io ho capito che se non credo in qualcosa o non percepisco la forza di una direzione non sarò mai in grado di operare. Questa consapevolezza mi ha portato nella posizione di poter fare quello che faccio oggi, nel mio piccolo generare cultura d’impresa. A volte ho cambiato strada perché non mi sentivo più me stesso. La lezione che ne ho ricavato e che è inutile tentare di abdicare alla propria natura, perché prima o poi riemergerà con prepotenza».
Si sono chiusi da pochi mesi i battenti di Eicma, la fiera del Ciclo e Motociclo di Milano, probabilmente la più importante vetrina internazionale del mondo delle due ruote, dove avete presentato la Smart Jacket, un nuovo gilet airbag indossabile sotto qualsiasi giacca e capace, in caso di incidente, di garantire una protezione di oltre sette volte superiore ad un normale paraschiena. Possiamo considerare quest’ultima novità come una milestone fondamentale per Dainese e un ulteriore punto di partenza?
«La Smart Jacket è un punto di arrivo di una tecnologia che ha attraversato oltre venticinque anni di sviluppo, perché abbatte di fatto le barriere d’ingresso e la rende disponibile a chiunque. È il culmine di un percorso, ma è al contempo un punto di partenza e uno snodo focale per Dainese e per la sicurezza dei motociclisti. Credo sia una di quelle innovazioni che lasciano il segno nella storia. Da qui si aprono altre idee e altri percorsi per un’azienda che ormai volge ai cinquant’anni dalla fondazione.
Quando arrivai in Dainese a me era chiarissima la necessità di arrivare a un prodotto che utilizzasse la tecnologia dell’airbag e che fosse accessibile a un pubblico più ampio possibile. Ci sono voluti quattro anni per coniugare questa innovazione con la semplicità di utilizzo, l’intuitività e un costo accessibile».
Nel realizzare il logo dell’azienda Lino Dainese, il fondatore, scelse come simbolo un fauno, una figura mitologica. Questo ricorso alla mitologia non si è limitato però solo ad un’immagine grafica. Lino, fondando la sua azienda, voleva assolvere al compito di proteggere gli “eroi” dei nostri tempi, identificati nei piloti di moto capaci di sfidare costantemente la morte gareggiando nei circuiti di tutto il mondo. Qual è la missione sociale che si pone Dainese per il futuro prossimo?
«Vogliamo rendere possibile l’espressione del potenziale umano, e questa possibilità può essere declinata nell’esigenza di protezione, comfort e, come nel caso delle missioni spaziali, contenimento in assenza di gravità. C’è una forte e innegabile connotazione di missione sociale in noi. Dainese oggi è principalmente focalizzata nello sport, ma ci sono campi di applicazione in ambito extra sportivo che stiamo esplorando con il D-Air Lab, la start up creata dal nostro fondatore che sosteniamo e sosterremo anche nella eventuale applicazione commerciale delle loro scoperte».
Oggi Dainese è pienamente coinvolta in questa nuova corsa allo spazio grazie ai progetti di tuta spaziale che sviluppate in collaborazione con la Nasa e l’Ente Spaziale Europeo. Quanto ritieni sia vicino il momento in cui un uomo potrà compiere il primo passo su Marte?
«Da ragazzo divoravo libri di fantascienza, quindi il tema non può che appassionarmi.
Il fatto che il destino dell’essere umano sia quello di puntare alle stelle e colonizzare l’universo è un dato di fatto e un punto di partenza. È curioso pensare, invece, a come ci sia voluto oltre mezzo secolo dell’allunaggio dell’Apollo 11 per tornare a porre la corsa allo spazio sotto la luce dei riflettori. Ora il tema è riemerso con grande forza, aiutato dalla consapevolezza di vivere su un pianeta, la Terra, dotato di risorse che stanno andando via via esaurendosi. Per chi è appassionato di science fiction questi erano temi già presenti oltre cinquanta anni fa, dove futuri distopici nei quali la sovrappopolazione e i mutamenti climatici venivano minuziosamente descritti nei romanzi.
Ce ne stiamo rendendo conto con i nostri occhi: sette miliardi e mezzo di persone sono un numero insostenibile per questo pianeta, anche solo per l’impatto ambientale che questa cifra comporta. La colonizzazione di altri pianeti è un progetto di lungo periodo, ma a mio avviso non più solo teorico.
Probabilmente la nostra generazione farà in tempo a essere testimone dell’atterraggio del primo uomo su Marte. E forse quell’esploratore indosserà una tuta spaziale Dainese. In ogni caso, io non vedo l’ora di assistere a quel momento».
Articolo: Mauro Farina Shooting fotografico: Adriano Mujelli