Antonio Colombo, Creativo per Columbus e Cinelli: gli artigiani sono i nuovi eroi

Antonio Colombo è patron di Columbus e titolare di Cinelli da oltre quarant’anni, due marchi storici del ciclismo italiano. Ci ha raccontato la sua storia.

 

Mio padre è un ciclista. Dovrei dire ex ciclista, dati gli anni di inattività, ma non si può mai definire “ex” un uomo che ha riversato per anni passione e sudore sui pedali.
Da bambino assistevo con curiosità al suo consueto rituale domenicale, la vestizione del corridore: prima i calzettoni, poi il body, una maglia multicolore – particolarmente di moda negli anni ’80 – e infine il caschetto costituito da quattro strisce di gomma piuma coperte da un sottile strato di plastica. L’ultima parte del rituale consisteva nel togliere la bicicletta dai supporti a muro, inforcarla e partire. La sua bici Romani, ancora gelosamente custodita, aveva un telaio in acciaio color oro e il logo di una colomba bianca su sfondo rosso sulla forcella.
Erano gli anni in cui l’Italia era la patria dei telaisti.
Erano gli anni in cui i migliori componenti per creare una bicicletta da corsa venivano realizzati nel nostro Paese da aziende che rispondevano – e rispondono – al nome di Campagnolo, Columbus, Cinelli.

È proprio mentre varco l’ingresso degli uffici di Cinelli che mi rendo conto come non solo le persone o gli oggetti, ma anche alcuni marchi siano in grado di legarsi a noi in modo spontaneo e inestricabile. Noi cresciamo e collezioniamo esperienze, ma alcune immagini della nostra vita, come quella di mio padre e delle sue domeniche in bici, sono capaci di scrivere il tempo, il nostro tempo.

Antonio Colombo, patron di Columbus e titolare di Cinelli da oltre quarant’anni, appartiene di diritto a quel ristretto circolo di persone che, nel loro piccolo, hanno ispirato il modo in cui il mondo del pedale cambia e si evolve. Vi appartiene perché nella sua autenticità è stato in grado di sfidare le rigide convenzioni del mondo del ciclismo, di precorrere mode e tendenze, di reinventare quando tutto sembrava fosse stato già inventato.

 

A Colombo si deve non soltanto il proseguo dell’artigianalità d’eccellenza italiana nel mondo del ciclismo, ma anche la creazione di vere e proprie pietre miliari come il “Rampichino”, la prima mountain bike prodotta in Europa, o la Laser, la bici da corsa sviluppata per conquistare i record dell’ora, o ancora le Bootleg, biciclette che hanno precorso sia il cicloturismo che il movimento culturale strettamente connesso alle bici a scatto fisso.

«Credo che la storia di Cinelli accompagni quella dei nostri padri e di un’intera generazione: è una sorta di neverending story, dove il ciclismo assume il ruolo di un vero e proprio contenitore sociale». Antonio Colombo

Quando gli faccio presente come alcuni dei nomi delle sue biciclette sono entrate nel linguaggio comune italiano, Antonio Colombo annuisce: «credo che la storia di Cinelli accompagni quella dei nostri padri e di un’intera generazione: è una sorta di neverending story, dove il ciclismo assume il ruolo di un vero e proprio contenitore sociale».

Antonio, spesso sei stato descritto come un creativo, un visionario, talvolta come uno scopritore di linguaggi. Sono tante le definizioni che ho potuto leggere di te. Mi piacerebbe sapere la tua.

«Se mi dovessi definire in due parole potrei dire di essere un “industriale pentito”. Fin da ragazzo ho sempre avuto una spiccata propensione per l’arte e il design, non certo per le logiche industriali dei numeri o per l’imprenditoria aggressiva. Questi ultimi sono tutti aspetti propedeutici per diventare un imprenditore di successo ma per me, che provengo da una famiglia di industriali, sono sempre stati molto lontani dal mio modo di essere. Io ero un ragazzo del ’68 che condivideva gli ideali di cambiamento e tutta quell’energia che si respirava in quel periodo.

Per mille motivi mi trovai a gestire una difficile eredità nell’epoca delle Brigate Rosse. Presi in mano le redini di un’azienda metalmeccanica in uno dei momenti più drammatici della storia italiana, quelli segnati dal terrorismo. Erano tempi difficili per un giovane che viveva nella contraddizione tra i suoi ideali e una società sull’orlo della guerra civile. Il dedicarsi totalmente alla bicicletta e al design ha rappresentato per me la via di fuga da tutto questo».

Da industriale pentito, come tu ti definisci, cosa ti ha portato a occuparti di un marchio come Cinelli?

«L’espressività del prodotto finito. All’epoca, e parliamo degli anni ’70’ avevo concentrato le mie energie sul marchio Columbus che produceva i tubi per i telai, di fatto l’anima delle biciclette. Avevo chiesto a mio padre di occuparmi proprio di quel settore nell’ambito delle aziende di famiglia.
Cino Cinelli era un ex ciclista, amico di mio padre, e aveva già in passato manifestato apprezzamento per la mia attitudine alla creatività, attitudine che a lui un po’ mancava da uomo rigoroso qual era, pur essendo stato allo stesso tempo un grande innovatore.
Cino mi agevolò nell’acquisizione della sua azienda, avvenuta a fine anni ’70, regalandomi un futuro che a me sembrava pieno di colore, di passione e di possibilità, tutte cose che con il mondo metallurgico non avevano niente a che fare.
Ho vissuto anche dei momenti di rabbia con lui, rabbia che mi spronava a rispondere con i fatti quando affermava quanto fossi incapace di capire il mondo del ciclismo perché non avevo mai pedalato sul serio.

Certo il fatto di non essere stato un ciclista professionista mi ha precluso per qualche tempo l’ingresso nel parterre di questo mondo proprio perché ero privo di questo background. Il ciclismo è un ambiente che viveva e vive tuttora di convenzioni.
Io ho scontato il gap, se così si può definire, di aver portato in dote passioni come quella per l’arte, la letteratura, la musica, il design. In breve, ero visto con un certo scetticismo».

Eppure, per quanto tu non fossi un ciclista, sei stato un innovatore e soprattutto un precursore di tendenze. Penso al “Rampichino”, la prima mountain bike prodotta in Europa il cui nome ha rappresentato per anni quella tipologia particolare di bicicletta, così come alla Bootleg, la prima bici da cicloturismo fuori strada nata prima ancora che nascesse il mondo “gravel”, penso alle bici a scatto fisso. Ti ritrovi in questa figura di precursore?

«Non mi sono mai posto l’obiettivo di essere un precursore. Sono interessato alle cose del mondo, l’arte mi dà una grossa mano a vedere tutto in modo diverso, mostrandomi nuove possibilità.
L’intuizione alla base dello sviluppo delle nostre bici a scatto fisso si è formata dialogando e conoscendo le community dei bike messenger americani, che non sono certo persone in vendita.

 

 

Inoltre, la mia storia e le mie conoscenze in ambito artistico, che spaziano da Keith Haring a Futura a Barry MC Gee solo per citarne alcuni, mi hanno aperto molte porte che sarebbero state precluse ad altri.
In campo artistico la grande rivoluzione della Street art ha aperto la possibilità di fruire spazi abbandonati e anonimi e quindi di affrescare il mondo come una volta affrescavano le chiese. L’arte e il design ti insegnano a vedere le cose in modo diverso, il design in particolare contiene in se stesso il significato di innovazione».

Cito a memoria una tua dichiarazione: «Quando penso alla bicicletta io vedo un contenitore da riempire di simboli». Tra i ricordi che conservo da adolescente ho questa immagine di mio padre che si presenta a casa con questa mountain bike particolare, dal telaio argento e dal manubrio giallo fosforescente, la Cinelli Argentovivo. Che processo simbolico c’è dietro al nome che scegli per un tuo modello, nomi che pescano nell’ambito della musica e dell’arte. C’è un nome a cui tu sei particolarmente legato?

«Più che di riempire di simboli una bicicletta, io questi simboli cerco di estrarli. Dare un nome alle cose per me è fondamentale e per fare questo ho attinto a piene mani dal repertorio artistico e musicale.
Prima citavi la Cinelli Argentovivo, la bici che tuo padre portò a casa: il suo nome è legato a una canzone dei Quicksilver Messenger Service, una delle band più originali e innovative di rock psichedelico degli anni ’60.
Un nome a cui sono senz’altro appassionato è Willin, una bicicletta da corsa Cinelli di alta gamma. Devo il suo nome a una canzone dei Little Feat, una band di rock blues: è un brano che parla di un gruppo di camionisti e dei loro viaggi di andata e ritorno tra l’Arizona e il Messico, da dove tornano portando con loro un po’ di erba.
Potrei andare avanti per ore a tirare fuori foglietti con nomi di biciclette e gli aneddoti dietro a ognuno di questi.
Uno dei motti che mi appartiene è quello di dare quel poco di felicità in più alle cose, come ad esempio trovare un nome a una mia bicicletta. Un nome che porta in sé dei contenuti è il mio piccolo contributo».

Personalmente credo che la forza di un piccolo artigiano di lusso, come ritengo tu possa essere definito, rispetto a colossi come le multinazionali del ciclo sia data dalla convinzione che non esiste un unico modo per correre in bicicletta o interpretare il ciclismo. Qual è il modo personale di Antonio Colombo di vivere questo mondo a pedali?

«La ricerca della trattoria più buona! (ride, ndr.). Vivo lottando costantemente tra la ricerca della performance e una delle tante passioni popolari italiane, quella del buon cibo. Se posso fermarmi e scoprire un’ottima trattoria dopo una cinquantina di chilometri e aver visto dei bei paesaggi mi sento già molto soddisfatto.

Tante volte sono percorsi che faccio da solo con la mia bici Nemo. Tantissimi ciclisti si confrontano solo con la strada , io mi confronto con i miei percorsi e con mia moglie che ogni tanto mi affianca».

Tra i tanti possibili, qual è secondo te lo stile di vita più affine alla bicicletta?

«Quello che ha come obiettivo un mondo migliore con meno inquinamento. La bicicletta sarà sempre di più un strumento determinante per fare fronte alle grandi emergenze ambientali. Nella bicicletta, poi, si inseriscono giocoforza tantissime mode, ma il grande valore che tutti le riconoscono è la libertà. Intorno a questo concetto è e diventerà un elemento futuro della mobilità e della coscienza».

In questo quarantennio di attività qual è stato il momento più critico per Cinelli e come è stato superato?

«Il momento più difficile che ho attraversato in questi anni è dipeso da una scelta che feci io, quando mi affidai a persone non abbastanza empatiche, al punto tale da non capire i nostri valori più importanti e quello che il pubblico voleva effettivamente da Cinelli.
Questa “demotivazione” dei nostri valori fondanti mi ha portato a intervenire e a rimettermi in gioco in prima persona in azienda.

Ci siamo reinventati grazie anche alla bici a scatto fisso, dove vedevo non tanto una moda quanto una nuova modalità di competizione. Perché la competizione è l’anima di Cinelli.
Ecco, credo che tra le qualità che mi appartengono ci sia senza dubbio la resistenza».

Uno dei vostri hasthag più utilizzati è #Cinellifamily. Su quali presupposti basate la vostra strategia di comunicazione in un ambito, come quello del ciclismo, dove ci si scontra con investimenti elevatissimi in sponsorizzazioni?

«Per entrare a far parte della nostra family un atleta deve apprezzare i nostri valori. Negli anni abbiamo radunato intorno a noi persone squisite, che magari non diventeranno mai campioni del mondo della loro specialità, ma che sono capaci di distinguersi. Non è un caso che abbiamo un piccolo record in Italia con più di 200.000 follower su Instagram.

Esporre un pensiero o un’idea, far scaturire un sorriso, lasciar trasparire un certo gusto e un pizzico di ironia, sono tutti elementi consentiti da questo sport e che molti invece dimenticano perché ormai interpretano il ciclismo solo come velocità, denaro, performance, obiettivi di vendita. Navigare in questo mare agitato non è facile, ma si può ancora fare».

«Sono fermamente convinto che più la massificazione del prodotto aumenterà più ci sarà una reazione contraria verso l’artigianalità, l’individualità, l’espressività». Antonio Colombo

Oggi come allora ci si scontra con processi di innovazione industriale orientati a produrre a costi sempre più bassi in una mera logica di prodotto di massa. A prima vista si potrebbero definire le realtà artigiane che ancora costruiscono a mano telai in acciaio come i nuovi eroi della bicicletta.

«Noi non siamo come Don Chisciotte che combatteva contro i mulini a vento pensando che fossero mostri. Noi artigiani combattiamo per una causa giusta. L’artigianalità muore solo se è concepita come un lavoro da vecchi.

La realtà ha dimostrato che nel momento in cui centinaia di giovani, come sta succedendo ora, dedicano il loro tempo a costruire telai sacrificando l’obiettivo del guadagno immediato, la produzione artigianale di biciclette è destinata a campare a lungo.

Noi questi nuovi eroi li sosteniamo e li appoggiamo come Columbus, sono i nostri primi clienti. Sono fermamente convinto che più la massificazione del prodotto aumenterà, più ci sarà una reazione contraria verso l’artigianalità, l’individualità, l’espressività.

 

 

I “santi telaisti” non scompariranno mai».

 

 

Articolo: Mauro Farina Servizio fotografico: Adriano Mujelli

Mauro Farina

Founder - Creative Content Manager

Altoatesino di nascita, bolognese nel cuore e veronese d’adozione, vive in simbiosi con la sindrome del bambino di fronte alla vetrina del negozio di giocattoli. Vorrebbe comprare tutto, ma non potendoselo permettere sublima raccontando ciò che divora con gli occhi.