Andrea Berton, Chef: severo ma giusto

Andrea Berton chef primo piano

Disciplinato, esigente, rigoroso, lo Chef stellato Andrea Berton, titolare dell’omonimo ristorante a Milano, non fa sconti a nessuno, in primo luogo a se stesso. Il suo imperativo? Essere portatore di una cucina moderna, che non passi inosservata e venga ricordata 

 

Non è semplice, intervistare Andrea Berton. Vuoi perché – in quanto a eclettismo – è in un certo senso il Paul Thomas Anderson della cucina. Vuoi perché ha la nomea di essere un tipo piuttosto rigido, tanto da incutere non poco timore reverenziale. Vuoi per la sua statura, fisica ma non solo. Lui, friulano, classe 1970, è la sintesi perfetta dello chef imprenditore, un professionista che è arrivato dov’è grazie alla propria caparbietà e a una ferrea disciplina, ma anche una persona in grado di vibrare al ricordo dei suoi maestri e dei loro insegnamenti. La passione per il cibo nasce in tenera età, quando da bambino «i miei genitori mi portavano al ristorante, e io anziché stare seduto a tavola sgattaiolavo davanti alla porta della cucina per sbirciare il movimento che c’era. Era un mondo che mi incuriosiva parecchio ed evidentemente lì è scattato qualcosa che poi mi ha portato a scegliere la mia professione».

Conseguito il diploma di maturità alberghiera, arriva la folgorazione. «Scoprii Gualtiero Marchesi su una rivista che comprava mia madre e che lo ritraeva in copertina. Lessi l’articolo, si parlava delle tre stelle Michelin che aveva ottenuto nel 1987, il primo in Italia a raggiungere un simile traguardo, e del fatto che fosse uno ‘chef comunicatore’». Passano due anni, durante i quali Andrea Berton si documenta diligentemente e capisce che il suo posto è in quel ristorante milanese e da nessun’altra parte. Nel 1989 prende un treno da Udine diretto a Milano, «che ai miei occhi equivaleva ad andare sulla luna» e dopo dodici ore di viaggio arriva in quella che, all’epoca, era «una città chiusa e inospitale, una città che non aveva nulla a che vedere con la Milano odierna».

 

Un suo ex compagno di scuola gli aveva creato un piccolo contatto e lui si presenta così al ristorante di Gualtiero Marchesi, senza appuntamento, alla fine del servizio del pranzo. «Chiesi di incontrare lo Chef del ristorante con cui avevo parlato al telefono una volta. Mi misero in una stanza ad aspettare, lo Chef arrivò, mi domandò se avevo un curriculum e io gli risposi di no perché non avevo mai lavorato prima. Lui mi spiegò la solita trafila burocratica che bisognava seguire per candidarsi e io insistetti: ‘sono arrivato qua e vorrei iniziare subito, non posso tornare indietro adesso’». Il suo interlocutore pare irremovibile, senonché – lupus in fabula – nella stanza entra Gualtiero Marchesi, che inizia a informarsi sul perché quel giovane ragazzo friulano fosse lì. «Gli dissi che avevo già portato la borsa con dei cambi, il libretto sanitario, il libretto di lavoro, tutti i documenti pronti. Marchesi si stupì e suggerì allo Chef di farmi provare: se le cose non fossero andate bene, mi avrebbero rispedito a casa». Era un giovedì e gli suggeriscono di ripresentarsi il lunedì mattina, ma lui non demorde: vuole iniziare subito, è già lì, che senso ha posticipare? Lo Chef alla fine, esausto, acconsente. «Avevo messo in conto ogni cosa, prenotandomi una pensioncina per una settimana e proponendogli di trovarmi un alloggio qualora avessi superato la prova. In un certo senso ero andato da Marchesi già con un po’ di soluzioni a portata di mano».

«Dissi a Chef Marchesi che avevo già portato la borsa con dei cambi, il libretto sanitario, il libretto di lavoro, tutti i documenti pronti». Andrea Berton 

 

Alle quattro del pomeriggio inizia così a lavorare, forte della piccola grande vittoria ottenuta. «Dato che Marchesi la domenica aveva un evento da cinquecento persone, il mio primo compito fu spinare il salmone. Per tre giorni tolsi soltanto delle spine, con lo Chef che mi girava intorno pronto a trovare il pelo nell’uovo: io zitto, eseguii lo stesso movimento infinite volte, attento a non sbagliare mai e a non rovinare il pesce perché non volevo dargli la soddisfazione di cogliermi in fallo. Evidentemente feci tutto a regola d’arte, perché poi rimasi lì tre anni».

Da Gualtiero Marchesi apprende «la valorizzazione degli ingredienti, che vanno messi in evidenza e, soprattutto, rispettati. Era strano in quegli anni, ma rappresenta una verità assoluta: ogni ingrediente deve essere gestito nel modo giusto per ottenere il massimo del suo risultato». Oggi sembra quasi di dire una banalità, ma all’epoca era una presa di posizione di rottura, insieme a una forma mentis ‘marchesiana’ ancora inesistente nel nostro Paese. «Ho fatto miei i concetti di organizzazione, di brigata, di struttura: ai tempi in Italia c’erano due, massimo tre ristoranti con questa impostazione, che si è rivelata fondamentale per la mia crescita professionale».

«Ogni ingrediente deve essere gestito nel modo giusto per ottenere il massimo del suo risultato». Andrea Berton

Dopo una parentesi presso Mossiman’s a Londra e all’Enoteca Pinchiorri di Firenze nel 1993, nell’anno delle tre stelle Michelin, è la volta del Louis XV di Alain Ducasse, e Andrea Berton entra nell’età adulta. «Da Ducasse ho avuto la conferma di come inconsciamente immaginavo questo mestiere: lui incarnava la disciplina, le regole, era un imprenditore – nonostante in quegli anni avesse ancora solo il Louis XV a Montecarlo e fosse agli albori della sua crescita nello sviluppo di tanti locali. In quel momento capii che la cucina costituiva qualcosa di più grande e importante del semplice atto di cucinare, con parecchie possibilità che, se prese nel modo giusto, potevano dare dei frutti».

In Italia un approccio del genere era fantascienza pura e non esprimeva lo stile di lavoro tipico dello chef, che doveva limitarsi a saper cucinare e gestire le persone che collaboravano con lui. Alain Ducasse è stato il precursore dello chef contemporaneo, che «deve essere un manager; gestire più fronti insieme; avere l’abilità di relazionarsi; parlare con i fornitori, con i giornalisti, con i propri dipendenti. È necessaria una predisposizione e una preparazione che va al di là della cucina». Il saper cucinare e ‘creare’, d’altronde, adesso è dato per scontato, e uno chef non può più ignorare il contorno che completa la sua comunicazione e l’interpretazione della sua filosofia.

Il portatore del cambiamento in Italia è stato, ovviamente, Gualtiero Marchesi, da cui Andrea Berton torna come Executive Chef dopo aver conquistato la sua prima stella Michelin presso la Taverna di Colloredo di Monte Albano, dove lavora dal 1997 al 2001. «Gestivo tutto il mondo Marchesi, dalle navi della Costa Crociere alle consulenze a Cannes e a Parigi: era quello che amavo fare, essere su più situazioni e su più progetti, ed è infatti anche ciò che faccio adesso. Per avere ogni aspetto sotto controllo, mantenendo un alto livello qualitativo, è fondamentale avvalersi di persone che capiscano cosa va fatto per dare il tipo di servizio desiderato. Oltre ad organizzare il sistema del lavoro per avere sempre delle relazioni con i propri collaboratori e un contatto con ciò che accade quotidianamente».

Rimanere con le mani in mano non è un’opzione né valida, né tantomeno percorribile, e i continui brief con lo staff ne sono la dimostrazione: il confronto è costante, sia che le cose funzionino, sia che arranchino. «L’approccio giusto consiste nell’essere sempre molto diretti: se una persona capisce, bene, se non capisce prenderà un’altra strada. In tal caso il problema è suo, non mio: se un impiegato entra in un’azienda e non riesce a integrarsi significa che non va bene per quell’azienda, e quindi è inutile perdere tempo. Se invece  ne comprende la visione, si impegna e dà il suo massimo, le cose possono andare avanti: non bisogna soffermarsi troppo sugli aspetti sentimentali in ambito lavorativo, e lo dico davvero in senso positivo. Se si ambisce a lavorare a certi livelli e a stare in un certo standing, la cultura e la preparazione delle persone dovrebbero essere queste».

«L’approccio giusto consiste nell’essere sempre molto diretti: se una persona capisce, bene, se non capisce prenderà un’altra strada». Andrea Berton

Andrea Berton, per sua stessa ammissione, è rigoroso in primo luogo con se stesso oltre che con gli altri ma, come non manca di sottolineare, «la vivo come la normalità da quando i miei capi erano rigorosi con me. Se mi riprendevano perché sbagliavo non mi infastidiva il rimprovero in sé, ma il fatto che non avessi capito bene il da farsi e che non mi fossi impegnato abbastanza. Cerco di spiegare a tutti i miei collaboratori che questo è lo spirito giusto: ci vuole autocritica, una predisposizione che pochi hanno. Se sei sicuro di quello che fai e di come lo fai, allora riesci ad accettare le critiche che – ragionandoci sopra – possono risultare costruttive: va trovato un equilibrio interiore affinché la critica scivoli addosso, venendo però introiettata. La differenza sta tutta lì».

Differenza che nel 2004 gli permette di spiccare il volo prendendo le redini del Trussardi alla Scala, ristorante a cinque stelle nel pieno centro di Milano, ottenendo numerosi riconoscimenti (tre Forchette dal Gambero Rosso nel 2010 e tre Cappelli nella guida dell’Espresso nel 2011). Nel 2012, l’addio. «Ho deciso di andarmene – nonostante stessi lavorando molto bene – a causa di disguidi che hanno interrotto il rapporto con la proprietà, ma la considero tuttora un’esperienza importantissima grazie alla quale mi sono fatto conoscere a Milano. Così ho deciso di rimanere e investire in questa città, aprendo prima Pisacco Ristorante e Bar (chiuso nell’aprile 2019, ndr.), DRY Cocktail&Pizza, il mio ristorante in Porta Nuova a dicembre 2013 – una stella Michelin – e infine Berton al Lago, sul lago di Como. Ho diversificato l’offerta, ma soprattutto ho deciso di restare in una città che mi ha accolto quando era inospitale e che ora è cambiata. È una Milano nuova, che è cresciuta diventando internazionale e attirando stranieri che vengono appositamente per capire l’evoluzione del mondo del cibo. C’è un interesse senza precedenti: un ruolo fondamentale l’ha avuto Expo nel 2015 e l’amministrazione milanese, che è stata capace di gestire in modo esemplare la città grazie a un bravo sindaco che l’ha trasformata in un modello da seguire. È una politica moderna quella che c’è oggi a Milano, una politica che fa fiorire le opportunità anziché reprimerle».

E sarà stato Expo, sarà stata la ritrovata vitalità del capoluogo lombardo, sarà stato il ruolo da protagonista assunto dal cibo, ma nel frattempo si è evoluta anche la clientela. «Il pubblico è più preparato, le persone più attente, interessate e incuriosite: il cliente ha una cultura maggiore rispetto alla ristorazione e agli ingredienti, il che è assolutamente positivo. C’è stata una specie di selezione naturale: chi ha continuato a non rendersene conto è stato messo automaticamente da parte, producendo una sorta di ‘affinamento’ che va a vantaggio nostro, dei ristoratori».

Se gli si pone la classica domanda odiata da tanti colleghi – qual è a suo parere il futuro della cucina – Andrea Berton risponde senza esitazioni: «più andremo avanti e più sarà una cucina del benessere: le persone vanno al ristorante per stare bene, e partendo da questo concetto di base l’aspetto salutistico rientra nel nostro modus operandi. Aumenterà la declinazione vegetale dei piatti, un punto su cui io stesso sto lavorando parecchio: i vegetali, trattati in un certo modo, possono dare grandi soddisfazioni a livello di gusto e sono un ingrediente incredibilmente interessante». Se poi gli si chiede come definirebbe la sua, di cucina, la conversazione prende una piega vagamente filosofica: «è immediata, diretta, moderna. Moderno per me è qualcosa che ti colpisce perché non l’hai mai visto. Qualcosa che ti ricorda un sapore che conosci, ma non hai mai assaggiato. Creare curiosità e attenzione è decisamente moderno: il piatto potrà piacere o non piacere – il rischio c’è, e bisogna tenerne conto – ma di sicuro non passerà inosservato e verrà ricordato. Oggi non abbiamo bisogno di mangiare per sfamarci, ma per stare bene, per appagare i nostri sensi e per stimolare una riflessione: ecco perché occorre interpretare in maniera moderna e attuale un legame col passato».

«Moderno per me è qualcosa che ti colpisce perché non l’hai mai visto. Qualcosa che ti ricorda un sapore che conosci, ma non hai mai assaggiato». Andrea Berton 

Non è un azzardo ammettere che per Andrea Berton la vita, così come la cucina, è fatta di delicati bilanciamenti, tra sicurezza personale e capacità di accettare una critica, tra disciplina e creatività, tra passato e futuro. Ed è esattamente nel mezzo che si inseriscono i grandi: i grandi registi, i grandi attori, i grandi pensatori, i grandi chef. Non cadono mai in uno dei due estremi, ma si mantengono stabilmente in piedi su un filo sottile, e si lasciano ammirare da un pubblico in adorazione mentre stanno lassù, impegnati a dare un nuovo significato alla loro arte.

 


Articolo: Marianna Tognini  Shooting fotografico: Lorenzo Morandi