Andrea Berti, Chef, Kukunochi Experience

Andrea Berti, chef, è l’inventore di Kukunochi Experience, il progetto culinario italo giapponese nato dalla sua esperienza in Giappone e a Londra. Scopriamo la sua storia e due ricette da replicare a casa.

in collaborazione con:

La Soffritta

Coniugare l’unicità, l’estro e la ricerca della qualità della tradizione culinaria italiana con il metodo, la devozione, l’attenzione in ogni gesto, il rispetto profondo per la materia prima e per la sua stagionalità. Questo, in estrema sintesi, il canovaccio alla base di Kukunochi Experience, il progetto culinario italo giapponese di Andrea Berti.

Andrea Berti, chef veronese con una lunga esperienza londinese nella ristorazione del Sol Levante, non è uomo dalle mezze misure e dai facili compromessi. Lo dimostra anche il radicale cambiamento di vita che lo ha portato da uno studio di architettura alle cucine di alcuni dei più rinomati ristoranti giapponesi in Europa.

«Nasco lavorativamente parlando come architetto e, come tale, ho lavorato in quell’ambito per una decina di anni. All’epoca il pensiero di dedicarmi alla cucina era assai lontano da me. Ho trascorso i miei anni universitari a Firenze e il caso ha voluto che nell’appartamento dove vivevo si fosse resa disponibile una stanza che venne occupata da Hidemori, uno studente giapponese di Okinawa.

Hidemori ha avuto il grande merito di svelarmi la mentalità giapponese: una volta tornato in patria mi invitò ad andare a trovarlo pagando di tasca sua il biglietto aereo per Tokyo. Venni così catapultato in una realtà lontana anni luce da quella alla quale ero abituato: venticinque giorni di viaggio in cui il mio amico non aveva lasciato nulla al caso, consentendomi un’immersione completa nella cultura del Sol Levante».

Il primo incontro con la cucina giapponese ha spalancato per Andrea Berti le porte di un mondo del tutto nuovo. «Lo ricordo come se fosse ieri: il mio primo tempura soba, uno spaghetto di grano saraceno fritto e croccante servito con l’acqua di cottura dello spaghetto stesso e che, una volta mescolata con l’intingolo, si beve fino alla fine. Alla fine della vacanza, tornai a Verona con un kimono indosso e un solo chiodo fisso in testa».
Il passaggio dalla professione di architetto alla cucina è stato graduale: in primis la fortuna di avere un padre gourmet che lo ha istruito a riconoscere e a scoprire sapori particolari. E poi, un legame inscindibile con l’Estremo Oriente, il trasferimento a Londra, un matrimonio con una ragazza giapponese e altri otto viaggi nel paese del Sol Levante «per nutrire il mio palato imparando le diverse percezioni di gusto date da ingredienti differenti rispetto a quelli a cui ero abituato ma assimilabili per tanti aspetti».
Da lì a poco le prime esperienze di cucina professionale. «Mia moglie vide l’annuncio dell’apertura a Holborn (Londra) di Wabi, un ristorante giapponese. Risposi all’annuncio inviando una mail nella quale premettevo di non avere alcuna esperienza professionale ma, pur di imparare, di essere disposto a fare anche solo il lavapiatti.

«Una volta assunto, iniziai subito a lavorare con il metodo e la disciplina tipici della cucina giapponese e con standard qualitativi molto alti. Lavoravo nella preparazione delle insalate, degli antipasti e del “dashi”, il brodo di pesce giapponese. Il giorno in cui l’head chef della sezione sushi fece per la prima volta un cenno di assenso con il capo dopo aver assaggiato il mio brodo camminavo a mezzo metro da terra». Andrea Berti

Una volta assunto, iniziai subito a lavorare con il metodo e la disciplina tipici della cucina giapponese e con standard qualitativi molto alti. Lavoravo nella preparazione delle insalate, degli antipasti e del “dashi”, il brodo di pesce giapponese. Il giorno in cui l’head chef della sezione sushi fece per la prima volta un cenno di assenso con il capo dopo aver assaggiato il mio brodo camminavo a mezzo metro da terra».

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Da quella prima esperienza ne sono seguite altre di spessore sempre maggiore. «Lavorare in ristoranti della caratura di Nobu, Sake No Ana e Flat Three mi ha permesso di conoscere sempre più nel dettaglio e interiorizzare dentro di me il metodo e il valore del lavoro che sta dietro alla realizzazione di ogni piatto e all’elaborazione di ogni ingrediente.

«Lo scintoismo afferma l’esistenza di una divinità in ogni cosa esistente: è il motivo per il quale i giapponesi hanno sempre un enorme rispetto per ogni azione che compiono, rispetto che appare illogico se non se ne conosce la filosofia alla base. la stessa cosa vale in cucina: lo si può ritrovare nell’elaborazione e nella trasformazione degli ingredienti così come per la materia prima e per la stagionalità della stessa. Perché la natura ti offre una quantità di prodotti infinita che devono soltanto essere riconosciuti per generare bellezza». Andrea Berti

Tra tutti gli aspetti, uno dei più affascinanti è stato quello di imparare a realizzare le salse, e impararlo lavorando da Nobu, il ristorante famoso nel mondo per la sua filosofia di commistione tra diverse cucine, in questo caso quella peruviana e quella giapponese».

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Il ritorno in Italia di Andrea Berti è accompagnato dal desiderio di portare in patria una filosofia di cucina particolare. «Ho battezzato il mio progetto con il nome di “Kukunochi” ispirandomi alla tradizione shintoista. È il nome del dio delle piante, il primogenito nato dalla relazione tra il cielo e la terra. Lo scintoismo afferma l’esistenza di una divinità in ogni cosa esistente: è il motivo per il quale i giapponesi hanno sempre un enorme rispetto per ogni azione che compiono, rispetto che appare illogico se non se ne conosce la filosofia alla base. E la stessa cosa vale in cucina: lo si può ritrovare nell’elaborazione e nella trasformazione degli ingredienti così come per la materia prima e per la stagionalità della stessa. Perché la natura ti offre una quantità di prodotti infinita che devono soltanto essere riconosciuti per generare bellezza.

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L’idea alla base del progetto Kukunochi è quindi proprio questa: coniugare disciplina e dedizione tipiche della cultura nipponica con l’estemporaneità, l’estro e la passione italiana per il cibo utilizzando la nostra materia prima alimentare. Mettere insieme queste due culture così diverse e così agli antipodi può generare un universo culinario di incommensurabile bellezza».

Ricetta dell’aringa marinata al forno, agretti, citronette allo yuzu

Per l’aringa

Pulire e sfilettare l’aringa e praticare delle incisioni parallele a distanza di circa un cm sul lato pelle. Far riposare in frigo l’aringa ben distesa sul lato carne con panno umido e pellicola a sigillare.

Per la marinatura

Mescolare in un pentolino la stessa quantità di sake e mirin, portare a bollore, abbassare al minimo, aggiungere lo zucchero e mescolare con una frusta fino a quando completamente sciolto. Spegnere il fuoco. Aggiungere il miso mescolando fino ad ottenere una pasta omogenea senza grumi. Accendere nuovamente il fuoco (bassissimo) e mescolare per addensare secondo preferenze. Lasciare raffreddare e refrigerare. Per comodità è possibile preparare il giorno prima. Marinare il pesce da ambo i lati in modo omogeneo almeno 24 ore prima di cucinare. La marinatura inizia la “cottura” delle carni.

Per la cottura

Accendere il forno ventilato a 180°. Rimuovere delicatamente la marinatura ma non lavarla via completamente. Cuocere per 8/10 minuti a seconda delle dimensioni del filetto fino a quando il miso sarà asciutto e caramellato ma non bruciato.

Per gli agretti

Preparare una bacinella capiente con acqua fredda e abbondante ghiaccio. Sbollentare in acqua salata (2 gr per litro) per 15/20 secondi e trasferire subito nell’acqua ghiacciata. In questo modo si mantengono il colore brillante e la giusta consistenza. Un volta raffreddati scolare bene e asciugare.

Per la citronette

  • 1 parte di succo di yuzu o in alternativa un mix di succo di limone 2/3 e lime 1/3.
  • 5 parti di olio evo
  • 1 parte di salsa di soia
  • Una goccia di aceto balsamico
  • Una punta di wasabi.

Emulsionare il tutto in una ciotola e trasferire in un biberon da cucina.

Ricetta del polipo arrosto, cardarelli al sake e salsa al basilico.

Per il polipo

Lavare bene il polipo facendo attenzione a rimuovere ogni residuo di terra dalle ventose. Battere i tentacoli con un pesta carne in modo da rilassare le fibre, ma senza rovinarlo.
Per la cottura esistono diverse scuole di pensiero. Si può lasciar sobbollire per circa un’ora e mezza in acqua salata (18 gr di sale per litro di acqua) con del sedano, profumi dell’orto e un pezzo di kombu di 15×15 cm. Una volta finita la cottura va lasciato raffreddare nell’acqua di cottura. Suggerisco di cucinarlo la mattina per la sera o addirittura il giorno prima. Quando immergete il polpo abbiate la cura di tuffare i tentacoli nell’acqua bollente in modo da farli arricciare: in questo modo il polpo sarà più bello.
L’altro modo di cottura è il confit, ossia cuocendo il polpo immerso accuratamente nell’olio per un’ora a 84°C. Questo metodo viene usato prevalentemente nei ristoranti dato che il polpo viene poi conservato nello stesso olio.
Una volta cotto, rimuovere la testa, il becco e separare i tentacoli avendo cura di tagliare in corrispondenza della giuntura tra gli stessi.
Una volta freddo, mettere una padella sul fuoco vivo, quando l’olio è ben caldo mettere il/i tentacoli ad arrostire avendo cura di non toccarlo fino a quando non inizia a rosolare: questo garantisce un buon colore e la consistenza corretta.

Per i funghi
Scaldare un filo d’olio in padella, quando è caldo aggiungere i funghi e una noce di burro e aggiustare di sale. Quando il burro inizia a brunire bagnare con sake, sfumare e rimuovere dal fuoco.

Per la salsa
Il shiso si trova in negozi specializzati, ma si può replicare con 1 parte di menta gentile e 2 parti di basilico. Le erbe vanno tritate a coltello avendo cura di non rovinarne gli umori tritandole troppo.
Aggiungi un tocco di succo di agrumi, un tocco di soia, sale e olio EVO a piacere.

Articolo: Mauro Farina   Shooting fotografico: Dana Buhnea 

Mauro Farina

Founder - Creative Content Manager

Altoatesino di nascita, bolognese nel cuore e veronese d’adozione, vive in simbiosi con la sindrome del bambino di fronte alla vetrina del negozio di giocattoli. Vorrebbe comprare tutto, ma non potendoselo permettere sublima raccontando ciò che divora con gli occhi.