Simone Tempia, Vita con Lloyd, Scrittore: scrivere è toccare l’universale

Simone Tempia è l’autore della pagina Facebook Vita con Lloyd, nonché di due libri dedicati ai suoi personaggi che tanto successo hanno riscosso. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la sua “vita d’altri tempi”.

Nel 2014 lo scrittore Simone Tempia ha aperto una pagina su Facebook intitolandola Vita con Lloyd. Da allora, ogni giorno, pubblica un dialogo che vede due protagonisti: il maggiordomo Lloyd, la saggia e accudente figura che suggerisce riflessioni e possibili soluzioni e Sir, l’uomo che nutre dubbi e pone interrogativi. L’ho intervistato a Verona, prima della presentazione in libreria del suo secondo romanzo In viaggio con Lloyd. Di persona è assolutamente come me lo aspettavo: gentile, garbato e vestito con un gusto un po’ rétro. Simone Tempia pare uscito dalle pagine di una storia di Poirot, baffi e papillon compresi. Gli ho domandato se aveva da accendere, mi ha offerto un cerino: «Sai, l’accendino è un aggeggio troppo moderno per i miei gusti».

Sono tre anni abbondanti che apro la mia giornata con la lettura di uno dei dialoghi di Simone Tempia e, con mia stessa sorpresa, molte mattine mi chiedo se Lloyd stia rispondendo a Sir, o a me.

Sulla genesi di Lloyd è stato già scritto molto. Nasce da un sogno, crei la pagina di Vita con Lloyd e dal 2014 pubblichi quotidianamente alle sette del mattino un suo dialogo con Sir. Esistono due diverse declinazioni letterarie di questi dialoghi. Una è “Dialoghi con Lloyd”, pubblicato da Rizzoli Lizard nel 2016. L’altra è “In viaggio con Lloyd”, uscito a novembre 2017. Hai già fatto un bilancio di questa tua esperienza narrativa?

«Sì, certo e potrei risponderti come un allenatore di calcio: “È andata molto bene, i ragazzi sono straordinari”. La scrittura fa parte della mia vita, della mia modalità di essere e comunicare. Sono una persona che ha sempre cercato di entrare nel mondo letterario e adesso che ci sono con due libri e con una rubrica sul Corriere della Sera non posso non dire che il bilancio sia del tutto positivo. Vita con Lloyd è un impegno quotidiano che dura da anni e, se voglio mantenere un’alta qualità dei miei scritti, questa presenza giornaliera mi richiede il 70 per cento dell’energia creativa. I primi due anni ho potuto vivere di rendita attingendo dal vissuto personale, poi ho dovuto cominciare ad analizzarmi giorno per giorno. Osservare, capire, comprendere quotidianamente e poi produrre qualcosa che avesse un motivo e un senso. È un lavoro difficile, soprattutto se consideri che non tratto temi d’attualità. Certo non sono da solo in questa cosa, mi sono circondato di validi collaboratori che si occupano di valutare ogni mio scritto. La loro unanimità porta alla pubblicazione mentre l’alternativa è il cestino. Dopo la prima stesura comincia un impegnativo processo di pulizia. Lo sforzo creativo a tavolino non toglie nulla alla parte emozionale».

Credo che una delle tue caratteristiche principali, accanto alla misura della composizione, sia proprio l’empatia che riesci a creare tra parola, personaggi e lettori.

«Quella c’è sempre perché entro in crisi molto spesso, mi metto in gioco, mi calo nell’altro. Credo nel lavorìo, l’ispirazione può esserci ma non sempre. L’istinto professionale è quello di creare uno scritto che possa partire anche da un’idea, non solo da un sentimento, ma della cui responsabilità io mi possa far carico sempre, anche dopo anni: la verità di un testo singolo vale per tutta la produzione».

Quali obiettivi ti eri posto all’inizio di questa avventura? Quanto ci hai creduto?

«Ti rispondo con una frase di  Warren Buffett: “Se non hai il coraggio di investire su un asset per dieci anni non investirci nemmeno per dieci minuti”. Quando ho iniziato mi sono detto: “Se credo in questa cosa almeno a tre anni ci devo arrivare”. L’obiettivo del primo anno era fissato al raggiungimento dei diecimila lettori: sono arrivato a ventimila.

Per il secondo anno di non accettare nessuna proposta editoriale che non fosse dalle due case editrici che mi ero prefissato e una di questa era Rizzoli Lizard. Per il terzo anno esiste un altro obiettivo, che ho raggiunto, ma di cui non voglio ancora parlare. Cerco di posizionarmi sempre un passo oltre le mie possibilità.

«L’istinto professionale è quello di creare uno scritto che possa partire anche da un’idea, non solo da un sentimento, ma della cui responsabilità io mi possa far carico sempre, anche dopo anni: la verità di un testo singolo vale per tutta la produzione». Simone TEMPIA

Credo in quello che scrivo – anche oggi – altrimenti non lo farei. Ci sono regole di mercato a cui non mi sono mai piegato, valuto sempre quanto di me posso mettere in discussione e quanto, invece, non posso toccare. Il risultato è una produzione che, anche tra dieci anni, non mi vergognerò mai di aver firmato con il mio nome».

Mi stai dicendo che non vuoi cavalcare il successo di Lloyd in tutti i modi possibili?

«Diciamo che non ho ancora pubblicato un ricettario a nome di chef Lloyd, ad esempio. Anche il secondo libro non volevo diventasse una replica del primo, ho lavorato in tutti modi affinché non lo fosse. Talvolta è difficile opporsi a un sistema che vorrebbe il successo assicurato vendendo sempre la stessa cosa.

La prima idea era chiaramente finalizzata a una ripetizione, ma devo dire che la mia casa editrice in questo mi ha sostenuto, permettendomi di uscire con un prodotto che ricordava il primo, nei personaggi e nello stile, ma non ne era la copia carbone».

Cosa vuol dire essere uno scrittore e cosa rappresenta la scrittura per te?

«Non so risponderti perché non c’ho mai riflettuto. Voglio fare lo scrittore da quando ho 14 anni. Suonavo la chitarra e volevo fare lo scrittore; poi ho scoperto che con la musica mi esprimevo peggio che con le parole e quindi ho deciso di fare solamente lo scrittore, pur avendo preso il diploma di chitarra. Non riesco a vivere senza pensare che quello che mi circonda possa essere scritto.

«L’uso di Facebook è stato intenzionale, ma non suggerirei mai a nessuno di cominciare da lì, a meno che non abbia un’idea molto precisa di chi è e cosa voglia fare». simone tempia

Quando scrivo qualcosa che mi piace e vedo che funziona sono felice. Paragono questo tipo di felicità a quando consumo un buon pasto al ristorante. Non è solo nutrimento, ne traggo un vero e proprio piacere. Ed è un piacere ancora più forte perché l’ho creato io. La componente narcisistica dello scrittore è innegabile e chi lo fa, mente. A 17 anni ho cominciato a far leggere cose mie a una professoressa di Bologna perché tenerle nel cassetto non avrebbe avuto alcun senso per me.

Non sarebbe un’operazione creativa compiuta se non ci fosse qualcuno che legge e, se il lettore mi restituisce un’immagine aumentata dalla sua buona accoglienza, la prima a trarne giovamento è la mia autostima. Scrivere è senz’altro un fatto terapeutico. Tutti abbiamo vuoti da colmare e raccogliere consensi riguardo al mio lavoro mi aiuta moltissimo a stare bene. Scrivere per me è anche una fatica fisica. Ho una scrittura densa e non riesco a spalmarla sulla lunga narrazione. Ho scritto dei racconti di due, tre pagine al massimo e alla fine ero stremato. Devo imparare a diluirla, altrimenti rischio di scrivere quindici pagine con la stessa fatica di scriverne trecentocinquanta».

Hai utilizzato Facebook e raggiunto la notorietà. È stata una scelta precisa o è accaduto per caso?

«L’uso di Facebook è stato intenzionale, ma non suggerirei mai a nessuno di cominciare da lì, a meno che non abbia un’idea molto precisa di chi è e cosa voglia fare. Facebook è un luogo anche narrativo, non procede per sole immagini come altri social, ma è instabile, è un mare magnum.
Se si aspetta da Facebook la sicurezza sul proprio valore, se non si è veramente convinti di quanto si scrive e di come, allora è necessario lasciar stare; perché devi essere talmente strutturato da riuscire a resistere agli alti e bassi della piattaforma. Ho lavorato parecchio per costruire un luogo educato, molto misurato. Ho cercato di praticare la gentilezza sperando che mi venisse restituita. Ho educato me stesso a controllare la piattaforma. La mia pagina Facebook è casa mia, non ho mai bannato nessuno, ma è capitato di dover mascherare commenti che ho ritenuti non idonei per la forma. Non costringo nessuno a rimanere, ognuno è libero di leggermi, tutti siamo obbligati a un’educazione reciproca».

Evochi un mondo che ormai non esiste più, un inizio ‘900 un po’ cinematografico, fatto di delicatezza e rigore, di modi compiti, di eleganza. Lo fai perché ne senti nostalgia o necessità?

«Il 1910 in cui io abito mentalmente non coincide con il preciso momento storico reale, è la mia idea di quel periodo. Mi sento immerso nella mia contemporaneità, ma ho bisogno di un mondo letterario nel quale sentirmi al sicuro. Espongo così tanto di me in quello che scrivo che la costruzione di un mondo confortevole, scevro da violenza e volgarità verbali, mi permette di continuare a mostrarmi senza sentirmi in pericolo».

Che tipo di lettore sei?

«Un lettore pentito. Mi pento di riuscire a leggere poco e allora mi impegno per leggere tanto. Mi impegno in molti aspetti della mia vita, praticando la disciplina in modo estremamente volitivo. Ad esempio mi impongo di lavorare dalle 8.30 del mattino alle 18.30 della sera, tutti i giorni, da solo a casa. Se non fossi volitivo finirei le mie giornate in pigiama, abbruttito sul divano, a inventare scuse per non lavorare. Il senso del dovere è qualcosa che mi incatena. Incatenarsi al dovere è un peso, ma è anche una liberazione. Ho una vita poco regolata e un’emotività strabordante: mi devo necessariamente far arginare da qualcosa».

L’aspetto che più amo dei dialoghi tra Lloyd e Sir è di poterli condividere con una delle mie figlie. La mia maggiore ha quasi quindici anni, le ho fatto conoscere la tua pagina ed è diventato un momento intimo di dialogo e di riflessione. Non è facile trovare un terreno comune di scambio in cui dialogare con figli della sua età. Che rapporto hai con le nuove generazioni? Hanno mai consigliato un tuo libro come testo di lettura a scuola?

«Un insegnante di Venezia ha assegnato il mio libro da leggere a tre classi, ma non ho mai avuto occasione di dialogare con i ragazzi e mi piacerebbe tantissimo. Sono un osservatore attento del mondo giovanile e degli under 18, sto studiando Youtube, tentando di capirne e analizzarne le dinamiche, non perché io sia preoccupato per questi giovani d’oggi, ma perché credo che sia una conoscenza necessaria in quanto scrittore.

Noi nati negli anni ’80 viviamo una fase molto positiva, perché tutto il materiale culturale è basato sul nostro immaginario e sulla nostra nostalgia, ma da qui a cinque anni la nostalgia sarà la loro e, se non conosciamo quel linguaggio e i capisaldi della loro cultura, ne rimarremo completamente esclusi. Sono molto contento di aver fatto qualcosa che attrae anche le nuove generazioni. Il miracolo della scrittura è che ogni tanto accade di riuscire a toccare l’universale».

Articolo: Maddalena Roncoletta  Shooting fotografico: Martina Padovan

 

Maddalena Roncoletta

Contributor - Writer

Vive a Verona e benedice la scuola dell'obbligo che le ha insegnato a leggere e scrivere, perché, nella vita, non vorrebbe fare altro. Laureata in lettere moderne, ha avuto la fortuna di fare della sua passione per i libri una professione: è bibliotecaria.