Pierluigi Ferrantini, Artista: la determinazione è l’unica cosa che conta

Pierluigi Ferrantini è un artista che contiene moltitudini. Sebbene ne avessi già avuto sentore anche solo da una veloce lettura del suo variegato curriculum, la mia sensazione diviene certezza non appena lo incontro a Roma a pochi passi dall’ingresso del Foro Italico.

Il luogo non è stato scelto a caso: Pierluigi Ferrantini ci ha condotto in una passeggiata, non solo metaforica, attraverso quelli che sono i luoghi cardine della sua vita e del suo percorso artistico e professionale odierno: un itinerario che dallo Stadio Olimpico dove lui, romano e romanista, sublima la sua passione per i colori giallorossi, porta agli studi Rai di via Asiago dove conduce quotidianamente su Radio2 il programma “Rock & Roll Circus” con sua compagna, di radio e di vita, Carolina Di Domenico.

Conosciuto ai più come cantante e front man dei Velvet, band romana nata una ventina d’anni fa nel bel mezzo di uno dei maggiori periodi di fermento musicale della Capitale, Pierluigi Ferrantini non ha mai smesso di evolversi: mantenuto l’imprinting musicale, oggi Pier è anche un autore radiofonico, un talent scout e, grazie alla sua agenzia “Circus”, anche un consulente creativo decisamente fuori dagli schemi. In mezzo, una serie di scelte coraggiose che in pochi, o forse nessuno, sarebbe stato in grado di fare.

La tua storia di artista, cantante e musicista è strettamente collegata a Roma e al periodo in cui la Capitale annoverava alcuni tra i locali più rinomati in Italia, tra cui il Circolo degli Artisti e il Velvet, dove era consuetudine poter e suonare musica di qualità. In particolare il Velvet, il locale da cui ha preso il nome la tua band, rappresentava per te «il posto dove era possibile giocare a fare le rockstar». Mi piacerebbe, partendo da queste tue parole, fare una sorta di percorso a ritroso della tua carriera.

Ricordo il Velvet come un locale dove l’entusiasmo era contagioso e dove ragazzi e ragazze vivevano un vero e proprio sogno. Erano anni in cui a Roma tanti musicisti avevano formato delle band, in un fermento che oggi pare ormai quasi completamente scomparso. È chiaro come buona parte di quell’entusiasmo derivasse dalla spensieratezza dell’avere vent’anni.
In quel periodo nella Capitale vi era, dal punto di vista musicale, una netta divisione stilistica: da una parte i cantautori (artisti del calibro di Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e altri), dall’altra chi vedeva nella musica un’altra cosa: noi, ad esempio, volevamo salire su un palco e imitare le rockstar americane in una sorta di malcelata preferenza per l’attitudine prima ancora che del contenuto.
Che poi, in realtà, nel caso dei Velvet quest’ultima affermazione non può essere considerata del tutto esatta. Nei nostri pezzi il contenuto ha avuto fin dai nostri esordi un valore fondamentale. Eravamo patiti di pop inglese, ascoltavamo gruppi come Oasis e Blur, volevamo scrivere grandi canzoni con ritornelli buoni per essere cantati da una folla a squarciagola, ma ad un’analisi meno superficiale si può notare come tutti i nostri testi siano sempre stati intrisi dei nostri pensieri e delle nostre storie personali.

«eravamo patiti di pop inglese, ascoltavamo gruppi come Oasis e Blur, volevamo scrivere grandi canzoni con ritornelli buoni per essere cantati da una folla a squarciagola, ma ad un’analisi meno superficiale si può notare come tutti i nostri testi siano sempre stati intrisi dei nostri pensieri e delle nostre storie personali». Pierluigi Ferrantini

Tolta la hit “Boyband”, che ci consacrò al grande pubblico, buona parte dei testi del nostro primo album conteneva svariati riferimenti a storie anche dolorose: una tra tutte la morte di mia madre e i miei tentativi di affrontare una perdita così grande: una lunga battaglia che ho raccontato in tanti altri brani. E per preservarmi dalla perdita ho iniziato a non godere appieno del successo che avevamo raggiunto e di tutto ciò che mi stava succedendo, come se tenessi inconsciamente una via di uscita sempre vicina a me.
In ogni caso, durante tutta la mia carriera non ho mai perso la mia determinazione. Nella mia testa non ho mai pensato nemmeno una volta che non saremmo stati capaci di realizzare il nostro sogno di suonare e diventare una band affermata. E La stessa determinazione la metto ancora oggi in ogni aspetto del mio lavoro.

In una tua intervista di qualche anno fa dichiarasti: «Siamo stati tutto tranne che una boyband», evidenziando quanto i testi dei Velvet fossero invece elaborati e introspettivi al punto tale da avere un seguito di fan in grado di riconoscersi nelle storie in essi contenute.

Sottoscrivo ancora oggi quella dichiarazione. Sono convinto che chiunque si trovi a scrivere i pezzi di un disco, la sceneggiatura di un film, un libro o qualunque altra cosa debba raccontare la propria vita e, se si è abbastanza fortunati, tantissime persone si ritroveranno in quello che si è scritto. Tanti nostri fan amano una canzone pop come “Boyband” ma ve ne sono altrettanti che prediligono un brano come “Funzioni primarie”: un testo che rappresentava una vera e propria bomba di nichilismo. Credo sia giusto concedersi al pubblico, raccontare chi sei e poi stare a vedere chi ti segue.

 

Insieme al tuo gruppo hai preso diverse scelte coraggiose, tra le quali spicca quella di liberarsi dal contratto con una major per virare verso una produzione indipendente. Puoi spiegarci le ragioni di una scelta all’apparenza così in controtendenza?

I Velvet sono un gruppo che, durante la propria attività, come tante altre band ha attraversato diverse fasi di alti e bassi, con un percorso di crescita artistico frastagliato e un rapporto spesso difficoltoso con i media che sovente tentavano di oscurare il resto della band chiedendo solo a me di posare per le copertine dei magazine, cosa che puntualmente rifiutavo. I condizionamenti all’inizio furono fortissimi: la casa discografica voleva plasmarci in un certo modo mentre noi volevamo andare da tutt’altra parte.


Abbiamo realizzato quattro album con major del calibro di EMI e UNIVERSAL con cui ci siamo trovati benissimo e che non smetteremo mai di ringraziare nonostante all’epoca ci fu più di qualche contrasto. Nell’ultimo di questi ci lasciammo convincere del fatto che una canzone, “Sei Felice”, fosse il singolo su cui puntare per la trasmissione sulle radio. Ma si trattava di un pezzo su cui avevamo “lavorato” troppo. I nostri brani più riusciti sono sempre stati quelli che si sono concretizzati in un attimo, perché erano canzoni fatte e finite già nelle nostre teste.

«I nostri brani più riusciti sono sempre stati quelli che si sono concretizzati in un attimo, perché erano canzoni fatte e finite già nelle nostre teste». Pierluigi ferrantini

Inoltre nello stesso periodo, e parliamo del biennio 2007 – 2008, le stesse case discografiche si resero conto di non poter più sostenere i vecchi e onerosi contratti di fronte a un calo continuo e inesorabile delle vendite di dischi e iniziarono a rinegoziare le condizioni economiche. Cogliemmo la palla al balzo e prendemmo in quel momento una decisione pioneristica per i tempi: iniziare a lavorare da soli in autoproduzione. Un nostro studio di registrazione, un nostro ufficio stampa, dischi autoprodotti e tour interamente gestiti e organizzati da noi.

Iniziare a lavorare come indipendenti ha portato indubbi vantaggi, perché se da un lato eravamo usciti dai radar dei grandi network radiofonici, dall’altro vendevamo lo stesso numero di dischi guadagnando molto di più. Tutto questo ci ha permesso di investire ulteriormente sullo studio di registrazione e su nuovi progetti.

Ultimamente stiamo assistendo ad un’evoluzione dei grandi network radiofonici nel determinare i propri palinsesti musicali: si sta passando da intere programmazioni quasi totalmente dedicate a artisti o gruppi definibili come mainstream a playlist nelle quali si nota una particolare attenzione alla scena indie italiana, con band come Brunori SAS e Zen Circus che hanno fatto da apripista. Si può quindi affermare con certezza che in Italia si è giunti ad un nuovo paradigma di comunicazione musicale?

Al 100%. La trasmissione “Rock & Roll Circus” che conduco da anni su Radio2 insieme a Carolina in un certo senso ha precorso questo cambiamento: siamo stati tra i primi a porre in risalto la scena indie nelle nostre scalette. Poi è arrivato il momento in cui anche diversi grandi network hanno iniziato a captare alcuni trend che in realtà si erano già affermati, promuovendo band come Brunori, Zen Circus, The Giornalisti o artisti come Calcutta e altri, a volte prendendosi meriti non del tutto reali.
Il fatto di registrare il tutto esaurito ad ogni concerto non può essere ignorato, perché questo sta a significare la presenza di una base forte di fan che smuovono altre persone o follower nella definizione social. Avere in radio un ospite come Brunori genera molte più reazioni e messaggi inviati al nostro programma rispetto ad un nome che apparentemente dovrebbe essere maggiormente seguito. Ignorare questi segnali sarebbe semplicemente stupido e controproducente per gli stessi grandi network. Oggi si parla della realtà indie perché allo stato attuale è la scena musicale che è diventata mainstream, sostituendo le popstar precedenti.

I social network, appunto. Che ruolo hanno nella definizione dei gusti musicali a tuo avviso?

Se potessi tornare indietro vorrei rivivere il successo avuto con un brano come “Boyband” avendo a disposizione i social network e vedere l’effetto che fa.

Il fatto che oggi un artista esca con un disco interessante ma non memorabile e sia comunque in grado di riempire locali e palazzetti deriva esclusivamente dal rilancio social che fanno di lui sia i follower che genuinamente seguono quella scena musicale, sia i grandi influencer che rilanciano gruppi e cantanti per mostrarsi sempre sul pezzo ma che a stento forse hanno ascoltato ciò di cui stanno parlando. Questo perché social network come Facebook e Instagram sono come una grande vetrina: nessuno vuole apparire vecchio o superato nei gusti e nelle tendenze.

Le piattaforme social consentono a tutti di esprimere la propria opinione in tempo reale, spesso in maniera non del tutto genuina. Da osservatore privilegiato della scena musicale offline e online, qual è la tua opinione in merito?

Tempo fa scrissi a tal proposito un articolo per il Fatto Quotidiano in occasione dell’uscita dell’ultimo album degli U2, di cui sono un fan accanito. La dinamica perversa dei social network porta gli influencer a dover scrivere per forza qualcosa e a scriverlo di fretta prima di altri per ottenere più condivisioni possibili. Il tema che sollevai in quell’articolo era proprio questo: che un disco possa essere bello o brutto è ovviamente discutibile e opinabile, ma il problema, in quel caso, stava nel fatto che vi erano persone che avevano scritto intere recensioni ancora prima di ascoltare l’album nella sua interezza. Ecco, da osservatore privilegiato del mondo musicale trovo questa cosa semplicemente ridicola. Al contrario, il livello di interazione raggiungibile con i social network è una miniera d’oro per tutti quei giovani imprenditori delle arti e della musica capaci sfruttare questi nuovi strumenti di marketing: ragazzi molto più esperti, capaci e intraprendenti di tanti direttori marketing di radio, riviste musicali ed etichette discografiche. Gente capace di “intercettare l’algoritmo” per imporre la loro musica. Tra questi mi piace citare Davide Caucci, la mente dietro a tanti degli ultimi successi musicali che si sentono in radio oggi.

Se tu avessi carta bianca per creare da zero un programma radiofonico, come lo imposteresti?

Sarebbe non molto diverso da quello che faccio ora. Su Radio2 non mi posso lamentare del grado di libertà artistica che abbiamo raggiunto e che ci siamo guadagnati pian piano. Dal primo giorno in cui sono approdato in Rai l’idea era quella di non fare la solita stantia trasmissione musicale. Io amo la musica, ma la maggior parte delle trasmissioni erano una noia mortale perché la struttura portante era rappresentata non dalla musica in sé ma da mere espressioni di autostima del conduttore musicale. Esiste invece un pubblico numeroso che non aspetta altro che di sentirsi proporre musica “bella” e diversa dal solito cliché che viene trasmesso dal resto dei media.


Il tutto, però, è ovviamente subordinato alla necessità di offrire leggerezza: una trasmissione di intrattenimento dove far scivolare anche informazioni dettagliate. Il nostro compito è quello di selezionare tra le uscite settimanali quelle a nostro parere più interessanti oppure le hit di altri Paesi che per una strana logica commerciale di cui accennavamo poc’anzi non vengono trasmesse dai grandi network nazionali. Abbiamo tanti ascoltatori che ci scrivono: gente non necessariamente appassionata di musica, ma che ascolta una trasmissione gradevole e al contempo amplia il panorama di conoscenze musicali. Se anche le altre grandi radio costruissero una playlist piena di bella musica sono sicuro che non perderebbero un solo ascoltatore. Se dovessi aggiungere un altro tocco alla trasmissione, mi piacerebbe inserire ogni tanto interviste a personaggi anche distanti dal panorama musicale per metterli in gioco, scoprirne i tratti caratteriali e i loro gusti musicali.

Con le tue risposte precedenti abbiamo inquadrato il Pierluigi Ferrantini cantante, musicista e autore radiofonico. Ci sono altri progetti a cui ti stai dedicando?

Un paio di anni fa decisi di costituire Circus insieme a Chiara Zappalà e a Claudio Vignozzi (che ora non lavora più con noi), una società nata con l’intento di porsi in antitesi rispetto alle agenzie di comunicazione e eventi convenzionali. Ci rendemmo subito conto che grazie alle nostre personali inclinazioni potevamo creare una realtà estremamente versatile.

«Nel lavoro, come nella vita, mi piace approcciare e affiancarmi a persone, personaggi e creativi dai caratteri anche diametralmente opposti al mio ma con un tratto distintivo imprescindibile che è rappresentato dalla determinazione. Devono essere ambiziosi e motivati. Il motivo è molto semplice: non porto avanti nessuna relazione con chi è propenso a mollare». Pierluigi ferrantini

Ho messo a frutto tutta l’esperienza accumulata in quindici anni di carriera nei Velvet: coloro con cui mi relaziono oggi in questa nuova realtà sono gli stessi con cui collaboravo quando ero unicamente un cantante e musicista. E conosciamo anche le dinamiche che intercorrono nella gestione di personaggi noti perché ho vissuto nella mia vita cosa significa girare per strada e essere fermato ad ogni passo per una foto o un autografo o essere sfruttato da persone a causa della notorietà. Ad oggi Circus è una casa di produzione per progetti video e un’agenzia di consulenza creativa: creiamo e produciamo attività di marketing per brand tra cui già diverse campagne, fortunatamente, di grande successo.

Ancora più importante è l’attività di management che gestiamo per personaggi particolarmente in linea con il nostro modo di vedere le cose: Circus è nata e cresciuta insieme a Gabriele Rubini alias Chef Rubio. Poi siamo felicissimi di lavorare insieme allo chef stellato Cristiano Tomei, con Beatrice Venezi, la più giovane direttrice d’orchestra in Italia e da poco anche con i tre atleti di MMA (arti marziali miste, ndr.) più forti in Italia che sono Alessio Di Chirico, già affermato nel circuito UFC, Carlo Pedersoli Jr e Micol Di Segni, una ragazza fortissima. Con tutti loro siamo in grado di confrontarci da un punto di vista così innovativo da avere pochi rivali tra le altre società di management.
Credo che questo sia un periodo storico in cui se si è bravi e determinati si può lavorare e farlo bene, perché ci sono tutte le condizioni per trovare lo spazio e il modo di inserirsi nelle pieghe lasciate da chi quello stesso lavoro lo fa male, anche solo per la scarsa freschezza delle proprie proposte.

Nel lavoro, come nella vita, mi piace approcciare e affiancarmi a persone, personaggi e creativi dai caratteri anche diametralmente opposti al mio, ma con un tratto distintivo imprescindibile che è rappresentato dalla determinazione. Devono essere ambiziosi e motivati. Il motivo è molto semplice: non porto avanti nessuna relazione con chi è propenso a mollare.

Articolo: Mauro Farina  Shooting fotografico: Paola Sarappa

Si ringrazia il ristorante “Tratto” per l’ospitalità. 

Mauro Farina

Founder - Creative Content Manager

Altoatesino di nascita, bolognese nel cuore e veronese d’adozione, vive in simbiosi con la sindrome del bambino di fronte alla vetrina del negozio di giocattoli. Vorrebbe comprare tutto, ma non potendoselo permettere sublima raccontando ciò che divora con gli occhi.