Lidia Carew, ballerina: il cigno nero

Lidia Carew copertina

Lidia Carew è una ballerina che ha studiato presso la prestigiosa scuola di ballo Alvin Alley di New York. È italiana. Ed è nera. L’abbiamo incontrata per scoprire la sua storia di ostinazione e successo.

Prima del 1697 si pensava che i cigni neri non esistessero. Fu l’esploratore olandese Willem de Vlamingh a scoprirli nel continente australiano e a renderli noti al mondo occidentale.

I black swans sono sempre stati lì, ma nessuno lo sapeva: questo ha alimentato una teoria dedicata detta appunto “teoria del cigno nero”, spiegabile come un “evento imprevisto eccetto che per fantasia irrealizzabile che tuttavia improvvisamente si verifica realmente, con conseguenze assai di rilievo nel vivere comune e nell’opinione pubblica”.
Lidia Carew è un cigno nero. O meglio, lo era, perché adesso sono in molti a conoscere le sue doti di ballerina e la sua determinazione nel cercare e scoprire altri cigni neri da presentare al mondo. Prima ancora di incontrarla anche io ho indossato i panni da esploratrice e mi sono documentata, come si fa in questi casi sui giornali, titolo dopo titolo. “Lidia Carew, il bell’anatroccolo è tornato in Italia”, “Lidia Carew, la nera che si sente italiana al cento per cento” e ancora, “Io, nera e italiana insegno agli artisti a vincere il razzismo”, scoprendo che il mondo di Lidia Carew era decisamente più complesso di quello di un comune cigno australiano. Quello che so di lei è che Lidia è nata a Udine e ha studiato danza con un’ostinata follia che le ha permesso di entrare a far parte della prestigiosa Alvin Ailey di New York, scuola fondata dal coreografo Alvin Ailey nel 1958. Non solo, Lidia Carew è socialmente impegnata.

Forte della sua necessità di determinarsi nel mondo in cui vive, ha creato prima una pagina Facebook chiamata “l’Italiana”, poi un’associazione chiamata “Lidia Dice…”. È stata ospitata al Ted-X, al Linkedin Connectivity Italia ed è stata invitata a numerosi incontri per parlare di stereotipi e limiti da superare. Tutto questo mentre veniva ingaggiata in una produzione di Spike Lee o lavorava per Antonio Marras e Shamar Moore negli Stati Uniti e a teatro in Italia.


Quando me la ritrovo davanti, il mio cigno nero è una donna dallo sguardo che cattura e la continua sensazione che qualcosa di nuovo le stia frullando nella testa.

Ciao Lidia! Ho letto talmente tante cose su di te che non so più chi sei!

«Sono Lidia Carew, perfomer di 29 anni. Ma in realtà le cose che hai letto sono tutte un po’ vere. Sono una ballerina perché ballo e danzo da quando ho 7 anni. Ho iniziato a Udine e poi a 17 anni mi sono trasferita a Milano per studiare danza in accademia.

Poi ho continuato la mia formazione negli Stati Uniti. Sono sempre stata convinta che quella fosse la mia strada. Volevo studiare danza più tempo possibile e concentrarmi al massimo».

Prima di tutto una ballerina, dunque.

«Sì, sul tappeto di danza mi sono sempre sentita in grado di esprimermi al meglio. Se in altri ambiti non riuscivo ad essere accettata appieno, sul palcoscenico era molto chiaro che la cosa faceva stare bene sia me che gli altri».

«Sul tappeto di danza mi sono sempre sentita in grado di esprimermi al meglio. Se in altri ambiti non riuscivo ad essere accettata appieno, sul palcoscenico era molto chiaro che la cosa faceva stare bene sia me che gli altri». Lidia Carew

Quindi, se ho ben capito, grazie alla danza hai risolto la pressione nata dal fatto che sei nera e italiana e ti sentivi giudicata.

«In realtà no. Perché quando sei piccola non hai la percezione del giudizio degli altri. Sentivo istintivamente che ballando stavo bene e solo dopo ho iniziato a capire che determinate cose di me mi facevano sentire meno adatta, meno bella o meno ballerina.

Ci sono tanti stereotipi intorno a noi e quando fanno presa facendoci sentire che “non siamo quella cosa lì” ci sentiamo diversi e inadeguati. Nel tempo ho imparato che ognuno vive con uno stereotipo che crede essere un limite».

Ma qual è lo stereotipo e quale il limite?

«La ballerina, per esempio, vive lo stereotipo di essere longilinea, bianca, con il capello liscio, senza curve, le spalle strette; tante caratteristiche che io non avevo e che mi facevano pensare di non essere adatta, che diventavano il mio limite».

Poi hai incontrato l’America e qualcosa è cambiato.

«Quando ho visto per la prima volta la compagnia Alvin Ailey ballare non sapevo della loro esistenza, non sapevo ci fosse una compagnia nera. Ma da quel momento ho iniziato a credere di essere semplicemente nel posto sbagliato per me, quindi ho fatto un paio di ricerche online e sono andata a vedere dove fossero. Sono andata a New York la prima volta e ho seguito lezioni per una settimana per tentare l’audizione.

Non ho mai parlato bene l’inglese e mi sono presentata a fare le audizioni nel mese sbagliato, fuori tempo. Ero a nove ore di distanza da casa, per la prima volta da sola negli Stati Uniti e avevo detto a mia madre che l’investimento che stava facendo aveva un senso, che doveva essere così perché io sarei entrata all’accademia e che quei sacrifici sarebbero andati a buon fine, per cui… ho iniziato a piangere davanti alla direttrice».

E poi?

«Mi hanno fatto fare l’audizione con i bambini di 5 anni. Mi hanno accettata e venti giorni dopo mi sono trasferita a New York per iniziare le lezioni».

Da qui è iniziata la carriera di successo che ti ha reso la performer che sei, impegnata lavorativamente sia in Italia che negli Stati Uniti. Adesso a che punto sei a livello di consapevolezza e traguardi raggiunti?

«Direi che un bell’80% c’è. Ora sono molto felice di essermi accettata e di essere consapevole della mia forza e delle mie debolezze senza la paura di mostrarle agli altri. Sono stata in un Paese dove ho capito come si muovono gli ingranaggi e che mi ha permesso di tracciare delle spunte importanti per la mia carriera: fare un film, una pubblicità, lavorare con una grande celebrity.

Il resto dipende da quello che vuoi fare con costanza. Se voglio e mi intestardisco posso arrivare in alto, giocando sulle caratteristiche contrastanti della mia personalità: l’essere italiana nel modo di comportarmi e l’essere nera nell’aspetto.

«avevo detto a mia madre che l’investimento che stava facendo aveva un senso, che doveva essere così perché io sarei entrata all’accademia e che quei sacrifici sarebbero andati a buon fine». Lidia Carew

Chi ha acceso il riflettore su di te? Come sei diventata un’icona che rappresenta la possibilità di farcela?

«Sono state più persone. A New York i primi tempi ho lavorato come baby sitter per un coach che mi ha aiutata a lavorare sul mio corpo e realizzare quel salto mentale che mi ha permesso di raggiungere traguardi che non pensavo di ottenere. C’è stato un momento in cui per me era importante far capire quanto fossi italiana ed essere riconosciuta come tale.

Il dovermi giustificare per dimostrare di essere italiana è una cosa che non mi metteva a mio agio, era un aspetto che mi indeboliva e quando l’ho detto ad alta voce è stato l’inizio della mia serenità. Da lì sono arrivata ad altre persone che hanno iniziato ad ascoltarmi, poi da cosa nasce cosa e tutto si è ingrandito sempre più».

Da cosa nasce cosa e tu ora hai un’associazione che scova “cigni neri” e aiuta giovani talenti.

«Sì. Mi hanno chiamata per fare una lezione e ho visto alcune ragazzine che mi hanno ricordato com’ero. Quando ho visto l’ascendente positivo che potevo avere su di loro ho deciso di dare il via all’associazione, pur consapevole che sia un ruolo di grande responsabilità, perché davanti a loro che hanno 14 o 15 anni e un futuro di sogni da guardare, quando dici qualcosa perché ci credi poi questo deve avere un seguito concreto. Ne è nata un’attività che porto avanti parallelamente alla danza.

Chiudermi in palestra non ha senso, voglio lasciare comunque qualcosa su questa terra, qualcosa di positivo. Perciò, semplicemente ogni giorno faccio quello che mi piace. Mi piace ballare e mi piace farlo accanto a persone che vogliono creare cose nuove, se poi facendolo posso anche ispirare altre persone a realizzare i propri sogni, meglio. Altrimenti vedrei un mondo troppo triste».

Articolo: Astrid Serughetti  Shooting fotografico: Giuseppe Ippolito