Giovanni Gallio, fotografo: l’uomo dietro ogni atleta

Giovanni Gallio è il fotografo che dà voce alle passioni, alle difficoltà, alla tenacia degli sportivi con i suoi scatti. E lo fa attraverso la rivista che ha creato. Scopriamolo.

È una giornata bigia, di quelle in cui non sai mai se e quando pioverà. Ma è orario di aperitivo – penso – chissà se sarò così fortunata da poter bere qualcosa di buono durante la nostra chiacchierata. Come è andata? Sono stata fortunata.

Giovanni Gallio mi aspetta al suo laboratorio. Sì, laboratorio, perché è uno di quei posti in cui ancora senti il profumo di artigianalità: uno spazio industriale molto semplice ma così denso di estro. C’è un set fotografico montato, il cavalletto ancora posizionato. E più in là – che bello – un mini salottino con poltrone vintage e una grande libreria piena di riviste. Non è strano che in questo posto ci siano così tante riviste. No, perché l’uomo che sto per raccontarvi ha trasformato un suo desiderio espressivo in una risorsa a disposizione di tutti. Giovanni Gallio è fotografo di moda, appassionato di reportage, amante della vita, dello sport e della sua famiglia. Ma soprattutto è un uomo genuino, capace di donarsi agli altri con totale semplicità. Ci sediamo sulle poltrone, posizioniamo le nostre birre ed eccoci pronti: vi presento Giovanni Gallio. Lui è il fotografo che dà voce alle passioni, alle difficoltà, alla tenacia degli sportivi con i suoi scatti. In una parola: Giovanni Gallio è Athleta.

Grazie Giovanni di averci accolti nel tuo mondo. Devo dire che è difficile dare una definizione di te, anche perché è il nostro primo incontro. Tu come ti definisci a livello professionale?

«Mi definirei come persona, perché nel lavoro sono esattamente come nella vita: me stesso. Ma come professionista devo ammettere che l’elemento fondamentale per me è un ambiente rilassato e sereno. Il rapporto personale, il feeling è imprescindibile, anche quando lavoro con i grandi professionisti.

Questa è la base, anche perché lavorando dieci ore al giorno non posso considerare il lavoro e la vita come due cose totalmente slegate tra loro. Cerco quindi di lavorare con persone con cui mi trovo bene e creare un ambiente in cui tutti si sentano apprezzati, responsabilizzati e possano esprimere la propria creatività e professionalità. Ovviamente nel lavoro devono esserci dei paletti necessari perché le cose funzionino, però sia con i collaboratori che con i clienti mi piace instaurare un rapporto di fiducia senza eccessive interferenze».

Vista la tua sincerità, ne approfitto per entrare un po’ nel vivo. So che la tua professione di fotografo è iniziata tra le mura della Franklin&Marshall, ma la fotografia come passione quando è nata?

«Hai detto bene, è una passione. Ho iniziato per caso durante un viaggio in Marocco con un amico: ho sempre viaggiato molto ma non capivo chi fotografava, perché mi sembrava che pensare alla foto non facesse vivere invece il momento. Questo mio amico però era, diciamo, un fotografo “da cavalletto”, da lunghe esposizioni. Insomma, stando con lui ho cominciato ad apprezzare anche le lunghe attese e mi sono avvicinato alla fotografia. Quando sono rientrato a casa ho recuperato la macchina fotografica di mia mamma, una Petri degli anni Sessanta che non aveva nemmeno la batteria. Così, per scherzo, ho iniziato a scattare. E lo feci anche quando andai in Nicaragua per documentare le condizioni di lavoro nelle zone franche, tema della mia tesi di laurea. Avevo portato con me la macchina fotografica per immortalare qualche ricordo, ma questi primi scatti sono finiti poi nella mia tesi e anche tra le mani di alcune associazioni, ONG e giornali missionari con cui ho cominciato a collaborare. È stato allora che ho pensato che la fotografia sarebbe potuta essere un lavoro. Ho cominciato a fare qualsiasi lavoro, dall’operaio al magazziniere, in modo da racimolare i soldi che servivano per fare i miei viaggi e cominciare una vita da reporter. Ho viaggiato in Somalia, Etiopia, Gibuti, Giordania, Cipro. Quando tornavo qualche foto la vendevo, ma ancora ero a un livello davvero di sussistenza. Poi le cose sono andate diversamente da quello che pensavo: grazie alla Franklin&Marshall, dove lavoravo come magazziniere, ho avuto la possibilità di sfruttare le mie capacità fotografiche per qualcosa di molto diverso dal reportage.

Ma questo mi ha permesso comunque di vivere della mia passione. Ho cominciato ad occuparmi di fotografia still life e poi di lookbook, finché non ho avuto abbastanza esperienza per potermi proporre anche ad altre aziende, come Diesel e Staff International. Questa parte commerciale del mio lavoro ha soffocato per un po’ di anni la mia vocazione e l’arrivo dei figli mi ha fatto pensare a una trasformazione di questa passione per i viaggi e il reportage».

Raccontaci di più del tuo lancio in Franklin&Marshall: una collaborazione che ti ha cambiato la vita, a quanto pare.

«Direi proprio di sì. Loro avevano visto le mie foto di reportage e sapevano come lavoravo. Al tempo stavano lavorando al loro sito internet e mi hanno chiesto se volevo collaborare per questo progetto come fotografo. Da qui è iniziata una collaborazione che è durata dieci anni. La scalata per affermarmi professionalmente è stata graduale e proprio questo è stato fondamentale per la mia crescita come fotografo: ho avuto la possibilità di seguire gli shooting fotografici delle campagne e di fare da assistente a fotografi professionisti già affermati e questa è stata una gran scuola. La mia strada e quella della Franklin&Marshall si sono poi separate, ma questa rimane per me una tappa cruciale del mio percorso fotografico».

Quindi sei partito dai reportage, sei passato dalla moda e sei arrivato allo sport. Qual è il collegamento tra questi tre campi?

«Nei primi anni lavoravo come un pazzo ed era impossibile pensare ad altro. Con il tempo però il mio team si è allargato, mi sono organizzato meglio e ho cominciato a ripensare al reportage. Ovviamente non potevo dedicarmi al reportage come facevo fino a qualche anno prima, quindi ho dovuto reinventare questo mio desiderio. Al tempo in Franklin&Marshall era nato un progetto con alcuni atleti. Erano ragazzi di grande talento ma meno conosciuti perché campioni in sport che in Italia sono ritenuti secondari come ad esempio il pattinaggio, il nuoto, i tuffi, il rugby o lo skateboard. L’incontro con loro ha fatto scattare la molla decisiva: perché non raccontare lo sport attraverso le storie delle persone che ci sono dietro ai grandi risultati, conosciuti o meno che siano? Attraverso Athleta, la rivista che ho creato insieme ai miei collaboratori, voglio far vedere lo sport in modo più profondo, voglio raccontare come è lo sport per chi non solo lo pratica, ma lo vive. Lo sport è per queste persone riscatto sociale, realizzazione personale, al di là della vittoria e della sconfitta. Da qui l’idea di dare forma a un magazine che trattasse lo sport da un punto di vista diverso rispetto a quello che siamo abituati a vedere, sfruttando le infinite potenzialità narrative della fotografia.

«Attraverso Athleta voglio far vedere lo sport in modo più profondo, voglio raccontare come è lo sport per chi non solo lo pratica, ma lo vive». Giovanni Gallio

Per come viene trattato, lo sport è noioso e sottovalutato perché tutto è ridotto al risultato finale. Anche il linguaggio fotografico sportivo riguarda solo le interviste e le azioni, non va mai oltre. Invece lo sport ha delle storie dietro che sono ben più importanti e più interessanti».

Athleta è quindi un magazine di storytelling fotografico, ma non solo. Vogliamo sentirlo da te: raccontaci cos’è Athleta.

«Athleta è un progetto di storytelling. Principalmente il racconto lo sviluppiamo attraverso i nostri scatti. D’altronde siamo fotografi, è questo il nostro mezzo espressivo. Ma la parte del racconto verbale è altrettanto importante e ci stiamo investendo molto. A marzo 2017 è uscito il nostro primo numero, composto da sei diverse storie.

Quando abbiamo iniziato a lavorare sullo sport non sapevamo ancora bene cosa farne. Ci siamo detti: iniziamo a fare dei ritratti introspettivi agli sportivi. Ne abbiamo fatti undici, ma il contenitore era ancora un’incognita. Abbiamo pensato a un blog, poi volevamo fare un libro. Non c’eravamo ancora. Allora abbiamo proposto il progetto alla Gazzetta dello Sport, ma l’iniziale impatto positivo si è poi trasformato in un nulla di fatto. Alla fine un magazine ci è sembrato il contesto ideale in cui poter inserire le nostre storie, quindi abbiamo deciso di partire da soli per questo viaggio e dare vita a quello che oggi è più fisico che mai, il nostro Athleta. A parte in Italia, dove la cultura del magazine sta emergendo soltanto ora, in Europa questo tipo di media è davvero apprezzato. La nostra idea non era ancora presente sullo scenario fotografico europeo e così a giugno 2017 abbiamo cominciato a lavorarci. Siamo partiti dai nostri materiali e abbiamo cercato anche collaborazioni esterne. È stata durissima perché il budget a disposizione era esiguo, la rivista ancora non esisteva e, concretamente, noi eravamo dei perfetti sconosciuti. Abbiamo mandato molte mail: tanti non hanno risposto e solo alcuni hanno abbracciato la causa. Primo tra tutti il fotografo Nick Clements con cui avevo collaborato in Franklin&Marshall, che è poi stato seguito da altri due contributors».

Dopo l’uscita del primo numero quale è stato il riscontro dal mondo fotografico?

«Molto buono, direi. Quelli che non hanno risposto alle nostre mail di collaborazione non sono tornati a cercarci, ma ancora oggi riceviamo tante richieste da altri fotografi. Di sicuro nel prossimo numero non avremo difficoltà nel trovare le storie da inserire: due contributor stanno già lavorando a delle storie ad hoc per il secondo numero di Athleta».

Athleta è un magazine fortemente visivo, si potrebbe addirittura dire di design per come è strutturato. Seguite delle linee stilistiche precise, soprattutto ora che ricevete contributi da fotografi esterni?

«Non abbiamo parametri fissi per quanto riguarda lo stile fotografico. Assieme al singolo contributore discutiamo l’idea del reportage e ci assicuriamo che segua la nostra linea editoriale, documentando l’atleta nella sua relazione con lo sport e non nell’azione sportiva diretta. Ci riserviamo di decidere per la pubblicazione solo dopo aver visto il materiale fotografico, ma ci fidiamo molto dei nostri contributori e siamo sicuri che il loro lavoro seguirà l’onda positiva del primo numero».

Parliamo invece di te: quando ti approcci a una storia per Athleta hai già uno schema mentale o parti dal classico “foglio bianco”?

«In generale seguo molto la storia, mi lascio trasportare. Mi piace interferire il meno possibile con quello che vado a fotografare. Piuttosto preferisco giocare d’anticipo, questo sì. Quando lavoro a un progetto la fase di preparazione è fondamentale: l’informazione a monte e la ricerca sono in generale il punto di partenza essenziale per fare un buon lavoro. Non mi ritengo un artista concettuale che usa la foto per esprimere le sue visioni o le sue idee, riproduco esattamente quello che i miei occhi hanno visto. Il complimento più bello che ho ricevuto per Athleta è stato: “Sembra di essere lì”. Alla fine la bellezza estetica diventa secondaria alla trasmissione delle emozioni del momento».

Quale sarà il tuo contributo nel secondo numero di Athleta?

«Racconterò attraverso le mie fotografie il mondo mini-moto, o meglio dei bambini che crescono assieme a questa passione su due ruote. Nello specifico sarà la storia di un figlio e di un padre. Al di là dell’aspetto sportivo di gara, l’elemento narrativo più forte è proprio il loro rapporto, questo legame che attraverso una disciplina sportiva si rafforza ogni giorno di più. Il papà è il suo meccanico, insieme preparano la moto nel salotto di casa prima di ogni gara e trascorrono i weekend in camper per partecipare alle competizioni. Sarà questa la storia che andremo a raccontare, dove non contano le gare vinte ma il grande successo che padre e figlio hanno già raggiunto nel loro rapporto».

«Non mi ritengo un artista concettuale che usa la foto per esprimere le sue visioni o le sue idee, riproduco esattamente quello che i miei occhi hanno visto. Il complimento più bello che ho ricevuto per Athleta è stato: “Sembra di essere lì”. Alla fine la bellezza estetica diventa secondaria alla trasmissione delle emozioni del momento». Giovanni Gallio

Quindi le storie che racconti sono parte della tua quotidianità, ti si rivelano come opportunità mentre svolgi la tua normale attività di fotografo. Oppure la ricerca è più complessa di quel che sembra?

«In realtà ci penso tutto il giorno! Cerco di essere il più ricettivo possibile in tutte le occasioni, per captare la presenza di una storia che possa arricchire Athleta. Occhi e mente aperti, sempre. Questa è una cosa che nella moda non mi capita, eppure è ciò che occupa la maggior parte del mio tempo.

Anche nella moda seguo progetti stimolanti ma la moda è lavoro, invece Athleta è la mia creazione, il mio progetto, il mio sfogo creativo. Basta una storia, un layout, un particolare, una conversazione per trasformare un attimo di quotidianità in un dettaglio per il magazine. È uno sfogo per me, ma non vuol dire allontanarmi dalla mia quotidianità qui in Italia: per il magazine sono stato in Birmania a documentare il lethwei, il pugilato birmano, quindi ho potuto viaggiare come facevo un tempo con i reportage. Ma il magazine non è un mezzo per sopperire alla mia voglia di viaggiare, è il motivo del mio viaggio. Ora, con una famiglia qui, sento il bisogno di vivere la mia quotidianità. Athleta sarà sempre la mia occasione per viaggiare, ma come piace a me: andare in un Paese con uno scopo, entrare nella cultura e portare a casa esperienze che da semplice turista non potrei avere mai».

Da quanto ci racconti, la tua famiglia è un elemento portante di questo progetto. Non collabora attivamente, ma è fondamentale perché possa crescere giorno dopo giorno.

«Sì, è proprio così. Mia moglie mi ha conosciuto che ero un esploratore folle e non mi ha mai messo freno. Anzi è stata lei che mi ha spronato a partire anche quando abbiamo saputo che aspettavamo il primo figlio! Comunque ogni tanto a casa la macchina fotografica la butto. A parte gli scherzi, penso che lo spirito di non dover vivere con la macchina fotografica sempre in pugno mi è rimasto da quando ero ragazzo. Non sono uno di quelli che deve per forza fotografare ogni situazione che gli passa davanti. A me piace la fotografia per esprimere ciò che mi circonda più che qualcosa che ho dentro. È un mio mezzo espressivo per raccontare quello che i miei occhi vedono e che io ritengo interessante da raccontare, ma non ho mai riversato nella fotografia la mia interiorità. Questo è quello che succede anche con la mia famiglia: non voglio raccontarla, la voglio semplicemente vivere in privato. Per questo foto ne faccio, sì, ma solo come ricordo e in pochi momenti. A volte quando si va in vacanza mi dimentico persino la macchina fotografica a casa!».

«A me piace la fotografia per esprimere ciò che mi circonda più che qualcosa che ho dentro. È un mio mezzo espressivo per raccontare quello che i miei occhi vedono e che io ritengo interessante da raccontare, ma non ho mai riversato nella fotografia la mia interiorità». Giovanni Gallio

Forse proprio questo ti permette anche di apprezzare di più i momenti in cui hai in mano la macchina fotografica, o sbaglio?

«Sì, penso tu abbia ragione. Anche nei rapporti con gli amici non sono una persona possessiva: i miei migliori amici non li sento tutti i giorni, ci diamo sempre dei periodi di distacco per poi apprezzare di più quando stiamo insieme. Ed è un po’ quello che succede con la fotografia».

In questa chiacchierata una cosa è chiara: sei una persona molto spontanea e concreta. Mi viene spontaneo chiederti cosa pensi dei visual social network. Sono un’incombenza o un’opportunità secondo te?

«Per me sono una cosa davvero bella. Sono una fonte incredibile di ispirazione, per vedere quello che fanno gli altri e per trovare spunti utili, ad esempio, per Athleta. Per un utilizzo personale, invece, il discorso è diverso: il mio profilo Instagram è privato e questo dice molto! Ma lo rimarrà perché tutto ciò che ritengo sia interessante divulgare lo condivido attraverso la pagina del magazine. Devo dire che senza i social probabilmente non mi sarebbe venuto neanche in mente di creare una rivista come Athleta perché sarebbe stato impossibile promuoverla e farla conoscere. Invece questi sono strumenti potentissimi per far crescere qualcosa che è appena nato. Il difficile è farlo nel modo giusto, gestirli nel migliore dei modi. Ma ci mettiamo tutto il nostro impegno, pur non essendo degli specialisti. Far crescere Athleta su Instagram è una cosa che mi piace molto e che facciamo davvero volentieri. Attraverso questo mezzo abbiamo venduto già diverse copie del magazine in Brasile, Canada e Stati Uniti, quindi conferma la mia idea che sia un mezzo vincente, per noi e per chi si occupa di fotografia».

Articolo: Martina Vanzo   Shooting fotografico: Simone Toson