Benjamin Stanford (Dub Fx), Musician, Australia

Sono passati sei anni, ormai, da quando Elisa Ghilardi, una mia cara amica ma prima ancora una musicista di grande talento e carattere, mi invitò ad una festa privata in una casa nascosta fra colline Lucchesi.
Elisa ci teneva a farmi conoscere un amico che, a detta sua, era un fenomeno, un musicista a tutto tondo che mi avrebbe lasciata senza parole.

La casa in questione era quella di Alba, la mamma di Benjamin Stanford, aka Dub Fx.
Musicista italo-australiano, street performer, Benjamin Stanford si è fatto conoscere di piazza in piazza girando mezzo mondo, niente major, niente contratti, soltanto una loop station, creatività, talento estremo e tanto amore per la musica, sino ad arrivare a calcare i palchi dei più prestigiosi club e festival al mondo. Le sue esibizioni sono un mix goloso di beatbox, sonorità Drum’n’ Bass, Raggae e Hip Hop, senza trascurare contaminazioni Jazz e Nu-Jazz, il tutto ovviamente riadattato con uno stile personalissimo che coinvolge e che travolge. I suoi concerti sono carichi di energia e irresistibile positività.


Benjamin è un grandissimo comunicatore, dialoga quasi quotidianamente, attraverso i suoi canali web, con i suoi fan, che ormai sono decine di migliaia e sono sparsi in tutto il mondo. Dub Fx racconta di sé, della sua vita personale e aggiorna costantemente il suo pubblico sulle date dei concerti, anche perché la sua pagina Facebook e il suo sito web sono l’unico modo per venire a sapere in anteprima quando e dove si esibirà.
Benjamin Stanford è la dimostrazione vivente che se si crede nella propria passione e nel proprio talento, aiutati sempre da una buona dose di fortuna, ogni traguardo è raggiungibile.
Lo scorso 29 luglio lo abbiamo incontrato al circolo Magnolia di Milano, in occasione di una delle sue esibizioni.

Ciao Ben, prima di tutto mi piacerebbe che mi parlassi un po’ delle tue origini: so che sei nato in Australia ma che hai anche sangue italiano poiché tua madre è di Lucca. Ti senti più australiano o più italiano?

Mio babbo aveva ventun anni quando è partito dall’Australia per intraprendere un viaggio in giro per l’Europa. A Firenze ha conosciuto mia madre e si sono innamorati; dopo due mesi sono tornati insieme in Australia e mia madre era già in dolce attesa. Sono nato e ho vissuto in Australia fino ai nove anni, poi sino ai dodici in Italia, a Lucca, e successivamente sono tornato a Melbourne, ma è da quando ho ventun anni (oggi ne ho trentatré) che vivo in giro per l’Europa.

Benjamin Stanford è la dimostrazione vivente che se si crede nella propria passione e nel proprio talento, aiutati sempre da una buona dose di fortuna, ogni traguardo è raggiungibile.

 

dub-fx-9Conosco bene l’Italia, quindi, e ho vissuto principalmente in Australia. Tuttavia non mi sento né italiano né australiano: mi sento europeo. Se dovessi trovare una cultura a me più affine, direi che è quella inglese, perché ne apprezzo profondamente tanto la musica quanto l’essenza britannica. Trovo che gli australiani abbiano un modo di fare molto simile a quello degli americani, troppo sicuri di sé stessi, mentre io preferisco gli inglesi, che trovo più umili e calorosi, anche se non appaiono esattamente così.

Chi ti ha trasmesso la passione per la musica? C’è stato qualcuno in particolare che ti ha incoraggiato ad intraprendere questo percorso?

Spesso, ahimè, quella del musicista non viene considerata una vera e propria professione al pari di quella dell’avvocato o del medico: nel mio caso nessuno mi ha mai detto che la carriera da artista non sarebbe stata una possibilità. In questo senso i miei genitori mi hanno sempre lasciato molto libero di scoprirmi, sperimentarmi e seguire le mie ambizioni. Probabilmente entrambi sono responsabili del mio amore per la musica.

Non sono figlio d’arte, ma considero mia madre una vera artista, anche se non lo fa di professione. Lo è nell’anima e nel cuore, è una persona molto creativa, si lascia andare facilmente e da questo punto vista è stata fonte di grande ispirazione per me. Il mio babbo, invece, nonostante provenga da una famiglia in cui ci sono molti artisti, ha una fabbrica di alluminio. Da piccolo era appassionato di musica e recitazione, tuttavia, poiché era il maggiore di cinque figli, quando è venuto a mancare suo padre ha dovuto iniziare a lavorare, mettendo da parte quelle che forse erano le sue reali ambizioni.

La tua musica è il risultato di un raffinato mix di generi diversi, si sentono varie influenze musicali dall’Hip-Hop al Jazz: questo lavoro è frutto di anni di studio o ti consideri più un autodidatta?

Non sono mai stato un grande studioso. Alle superiori ho scelto l’indirizzo in musica semplicemente perché era più semplice e perché sul palco mi sono sempre sentito a mio agio. Ho iniziato a cantare e a scrivere canzoni verso i quattordici anni, ero un teenager un po’ depresso, non mi sentivo molto australiano, avevo trascorso qualche anno in Italia e concepivo la vita diversamente dai miei coetanei. Mi sono rifugiato nella musica, ho iniziato a cantare e suonare per dare voce alle mie emozioni.

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A diciotto anni seguivo parallelamente diversi progetti e tutti di generi differenti, e cantavo: Hip Hop, Heavy metal, Raggae, Jazz, mi esibivo con un dj nei bar oppure semplicemente da solo in acustico. Mi sono immerso contemporaneamente in questi generi musicali e quando sono arrivato in Europa ho portato con me tutto questo bagaglio artistico di ispirazione e cultura.

Quando e perché hai deciso di suonare per strada?

L’idea di esibirmi per strada mi ha sempre stuzzicato, desideravo farlo da tanto, soprattutto perché, prima di diventare un cantante, il mio sogno era sempre stato quello di fare l’attore ed ero estremamente affascinato dalle performance in strada di comici e clown. Avevo dodici anni quando, per la prima volta, ho visto esibirsi a Melbourne un musicista di nome Lindsay Buckland; quest’artista usava la loop station con uno strumento a corde, simile al mandolino, che si era costruito da solo. Ero ammirato da questo musicista e tornavo a guardarlo esibirsi tutti i giorni con estrema attenzione. In seguito, per me, è stato fonte di grande ispirazione. Ho avuto il piacere di ascoltarlo anche a Sidney e in Italia, lo spettacolo che proponeva era vincente, perché piaceva e nello stesso tempo gli procurava un guadagno. Qualche anno dopo mi sono imbattuto in un altro artista di strada che, solamente con microfono e una loop station creava delle basi incredibili.

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All’epoca già sperimentavo degli effetti sulla voce, delay e riverberi dal vivo, avevo un’effettiera e mi piaceva manipolare la mia voce, lo facevo in tutti i gruppi in cui suonavo. Dopo aver visto quest’altro artista usare la loop station, ho pensato che avrei potuto farlo anch’io: mi è tornato in mente Buckland e ho iniziato a cantare per strada in giro per l’Europa.

«Avevo dodici anni quando, per la prima volta, ho visto esibirsi a Melbourne un musicista di nome Lindsay Buckland; quest’artista usava la loop station con uno strumento a corde, simile al mandolino, che si era costruito da solo. Ero ammirato da questo musicista e tornavo a guardarlo esibirsi tutti i giorni con estrema attenzione. In seguito, per me, è stato fonte di grande ispirazione».

Di sicuro viaggiando tanto ed esibendoti di piazza in piazza avrai molteplici aneddoti da raccontare: qual è il primo che ti viene in mente?

Sono successe tantissime cose per strada, tuttavia mi piace ricordare un episodio accaduto a Londra, a Camdem Town, dove mi trovavo per una performance. Poco distante da me c’era una poliziotta, le chiesi se potessi suonare e lei mi disse che senza permesso da parte del comune non era possibile. Allora chiamai il council per informarmi, ma mi risposero che non avevo bisogno di alcuna autorizzazione.

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Quando suoni per strada, devi fare molta attenzione, se la polizia ti manda via, devi andare via senza fare opposizioni. Quindi aspettai che la poliziotta si allontanasse, montai la strumentazione e cominciai ad esibirmi. Generalmente quando canto ho gli occhi chiusi; ad un certo punto, però, mentre mi stavo esibendo, li aprii e con sorpresa vidi che la poliziotta era tornata; però ballava insieme al resto del pubblico, la mia musica aveva conquistato e coinvolto anche lei, e mi sono sentito molto gratificato.

Immagino che non sia stato facilissimo, all’inizio, poterti mantenere e ricavare un grosso profitto con le sole esibizioni in strada. Quanto tempo hai impiegato per far partire il business? Inoltre, non avendo una fissa dimora e una sala prove, come registravi i tuoi pezzi sui cd?

All’inizio in strada vendevo pochi cd al giorno. Poi gli amici hanno iniziato a darmi una mano e mentre mi esibivo li vendevano per conto mio: a quel punto i numeri delle vendite sono lievitati. I brani contenuti nei cd erano tutte registrazioni live delle mie performance: tutti i giorni, quando tornavo a “casa”, riascoltavo le registrazioni e selezionavo quelle che mi piacevano di più.

Erano tutti pezzi improvvisati, creati sul momento in base all’ispirazione. Non facevo alcuna prova prima di andare in strada, le prove erano sulla strada. Anni prima avevo scritto dei brani per chitarra, così ho iniziato cantando quelle melodie su basi diverse: Hip Hop, Raggae, Drum’n’Bass. I testi rimanevano gli stessi, stesse melodie cantate però su basi diverse: ogni giorno sperimentavo e facevo una selezione di quelle che mi sembravano più adatte.

Ho visto diverse fotografie sulla tua pagina Facebook di fan talmente devoti che hanno il tuo simbolo tatuato addosso. Cosa vuol dire e che significato ha per te?

Dal mio punto di vista racchiude molteplici interpretazioni. Volevo qualcosa che simboleggiasse l’infinito e per questo, inizialmente, avevo deciso di sostituire le due “o” della parola loop con il simbolo di infinito, ma era una scleta troppo banale e, inoltre, ricoLOOP lo aveva già inserito nel suo nome. A quell’epoca avevo solo tre loop: batteria, melodia e basso, quindi ho cercato di creare qualcosa che li combinasse graficamente tutti e tre. Inoltre, guardando il mio simbolo frontalmente, se si elimina un lato sembra una D, al centro c’è una U e dall’altro lato c’è una B, quindi c’è scritto DUB: bisogna guardarlo con attenzione, ma è lì, il senso è tutto lì.

C’è stato un momento in particolare in cui hai avuto la percezione di essere arrivato alla svolta e che la tua vita sarebbe cambiata?

Dopo i primi tre mesi da busker, ho tirato un po’ le somme e ho fatto un vero e proprio calcolo matematico; mi sono reso conto che se avessi venduto circa quaranta cd al giorno, come stavo facendo, per quattro anni, esibendomi tre volte a settimana, avrei venduto una quantità di cd impressionante, il che mi avrebbe consentito di diventare popolare e di farmi conoscere in giro.

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Ai tempi, non avevo Facebook e non c’erano i miei video su youtube: avevo solo Myspace, dove già contavo trentamila followers. Col passare del tempo sono arrivato a vendere oltre cento cd al giorno, i numeri si sono moltiplicati velocemente. Poi, nel 2008, è arrivata la notorietà sul web grazie al regista inglese  Ben Dowden che, dopo avermi visto esibire in una galleria d’arte, mi ha chiesto di filmare una mia esibizione in strada e ha postato il video di “Love someone” sul suo canale YouTube. Tuttavia ci sono artisti molto noti su internet che non hanno riscosso lo stesso successo.

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Ho lavorato tanto, costantemente, e credo di aver raggiunto questo livello di popolarità proprio perché mi sono messo in gioco prima di tutto sulla strada, ho creato un contatto diretto col pubblico, ho interagito fisicamente con la gente, prima della rete, prima del rapporto virtuale.

Sei passato dall’ammirazione di un pubblico di alcune decina di spettatori ad incendiare, con la tua musica, folle di migliaia di fan. Quale dimensione preferisci: la strada o i palchi?

Mi piace esibirmi ovunque, tuttavia la strada conserverà sempre un sapore speciale per me. Ogni tanto lo faccio ancora, per divertimento, quando devo girare un video o perché il promoter si rifiuta di pagarmi. Succede molto raramente però, per due motivi principali: il primo è che una volta dovevo esibirmi per strada perché era quello che mi dava da mangiare, mentre ora posso permettermi di non farlo; il secondo è una questione logistica: ho vissuto sei anni in un furgone in cui avevo tutta la mia attrezzatura, adesso non ho più la strumentazione al seguito, perché viaggio in aereo, e suonare per strada diventerebbe complicato.

«Mi piace esibirmi ovunque, tuttavia la strada conserverà sempre un sapore speciale per me».

 

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Ho visto tanta tecnologia sul palco, sei partito dalla strada con una loop station e poco altro, cosa pensi della tecnologia in relazione alla musica?

In realtà, rispetto a prima, non ho molta strumentazione in più: oltre ad un’effettiera, una loop station e un mixer in aggiunta ho solamente una drum machine; quello che è cambiato è che in più c’è un bassista che ha un moo e una sua effettiera, e un tastierista che ha due loop station e il sassofono. Questo ci consente di mettere in piedi uno show completo, con molti più elementi.

Un’ora e mezzo di quello che facevo per strada è bello per 30 minuti, ma alla lunga diventa noioso. Credo che la tecnologia sia secondaria all’arte: per prima cosa scrivo un pezzo, la seconda parte è la performance, e qualsiasi cosa debba usare per la performance arriva al terzo posto.

Dopo tanti anni sei diventato molto famoso e apprezzato, soprattutto fra gli amanti del genere: a questo punto senti di essere “arrivato”?

Prima di diventare Dub Fx, a diciott’anni avrei voluto diventare una pop star, mi sarebbe piaciuto che un’etichetta importante come la Sony mi scritturasse, avrei voluto quel tipo di fama, ma non è successo e ho preso un’altra direzione: la strada.

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Quando ho iniziato quest’avventura i miei pezzi erano molto pop e non interessavano a nessuno. Passando al Dubstep, Drum’n’Bass e roba un po’ più nuova e “incazzata”, la gente ha iniziato ad apprezzarmi e ad acquistare i miei cd. Così ho capito che non dovevo essere un prodotto, ma dovevo essere un artista. Se la mia musica fosse stata pop e commerciale sarei fallito subito. Quello che conta per me è fare arte col cuore e con l’anima: più soul metti in quello che fai, più la gente lo avverte e piaci.

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La fama in sé mi importa davvero poco, ciò che realmente mi interessa è scrivere i pezzi e suonare. Non sono presente sulle radio, non vado in tv, non sono una persona “famosa” da questo punto di vista: sono conosciuto perché la mia performance è originale e piace alla gente. Non evito le radio, ma non sono un prodotto da radio perché non sono il fenomeno pop, tutto qui. Adesso sto per diventare padre, e per me questa è la cosa più importante. Questo significa essere realizzato, la musica potrebbe passare in secondo piano.

Come ti vedi fra dieci anni? E dove ti vedi?

Considerando gli ultimi eventi, innanzitutto mi vedo con una figlia di dieci anni e poi spero di ritrovarmi a fare quello che più mi piace e mi appassiona. Non voglio ripetermi e fare sempre le stesse cose, mi piacerebbe evolvere, vorrei scrivere un fumetto e forse tornare al mio sogno iniziale, quello di recitare.dub-fx-30

 

 

Oggi, però, mi concentro solo sul momento, non mi piace pensare troppo al futuro. Per quanto riguarda il dove”, mi piacerebbe vivere a Berlino o a Sanpaolo, perché sono due città dove arte e musica sono molto sentite.

Cosa pensi della musica italiana?

C’è musica molto bella in Italia. Quello che però è in classifica e va per la maggiore, oggi, non mi piace: non mi piacciono i Talent Show, non trovo nulla di originale, e dal punto di vista musicale non hanno reinventato nulla. Apprezzo molto, invece, la musica degli anni ‘70, che era davvero un’altra storia. Tuttavia ci sono artisti italiani che mi piacciono e che ho ascoltato tanto, soprattutto quando vivevo in Italia, tipo Jovanotti, i 99 Posse, Lucio Battisti e Pino Daniele.

«un luogo che ricordo con particolare affetto e che ho nel cuore, è dove è stato girato “Love someone”, a Bristol. Quando mi capita di tornarci mi emoziono tantissimo, perché se non fosse stato per quella piazza, e per l’artista che ha deciso di riprendere la mia performance, forse sarei ancora un artista di strada, forse avrei raggiunto il successo diversamente o forse nulla di tutto ciò».

Se avessi la possibilità di scegliere un artista con il quale fare un live, chi ti piacerebbe potesse essere?

Ce ne sono tantissimi: Damian Marley è sicuramente uno di questi, ma non so se si esibirebbe con me. Potrei lavorare un po’ con tutti anche per quanto riguarda il Jazz, che è un genere musicale che apprezzo tantissimo e del quale sono molto appassionato. Se ne avessi avuto l’occasione, però, fra tutti, di sicuro, mi sarebbe piaciuto molto collaborare con Amy Winehouse, ma ahimè non è più possibile.

Nel corso degli anni da busker hai girato mezzo mondo, visitato tanti posti, e ti sarai di sicuro esibito nelle situazioni più disparate: qual è il luogo che ti è rimasto di più nel cuore?

Ce ne sono davvero tanti, ho avuto la fortuna di vivere delle bellissime esperienze. Ad Amsterdam e Budapest, per esempio, mi sono esibito davanti a cinquemila persone, ed è stato incredibile.

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Tuttavia un luogo che ricordo con particolare affetto e che ho nel cuore, è dove è stato girato “Love someone”, a Bristol. Quando mi capita di tornarci mi emoziono tantissimo, perché se non fosse stato per quella piazza, e per l’artista che ha deciso di riprendere la mia performance, forse sarei ancora un artista di strada, forse avrei raggiunto il successo diversamente o forse nulla di tutto ciò.

Articolo: Maria Pia Catalani  Shooting fotografico: Simone Toson

 

Maria Pia Catalani

Contributor - Writer

Chimico dall'anima soul, si divide fra il mondo che ruota attorno alla tavola periodica di Mendeleev e quello delle sette note. Assume quotidianamente più volte al giorno razioni massicce di musica; tutta, quella bella, e di prima qualità, ovviamente.